Arrivano messaggi, video e testimonianze che smentiscono la propaganda mediatica contro il governo Maduro. Un format già visto prima delle aggressioni militari imperialiste.
Secondo il copione delle “rivoluzioni colorate”, in Venezuela tornano i cecchini. Questa volta hanno perso la vita due adolescenti: nello stato Lara, governato da Henry Falcon, un personaggio della destra moderata che appoggia (seppur ambiguamente) il dialogo con il governo e che spera di essere candidato anti-Maduro alle prossime presidenziali. Come di consueto, le destre e i vertici della chiesa cattolica, che contrastano anche la mediazione del papa Bergoglio, accusano i “collectivos”: ovvero le organizzazioni di base dei quartieri che appoggiano la rivoluzione bolivariana e che contendono il territorio alle mafie e ai narco-paramilitari.
Ovviamente nessuno si pone una domanda logica: che interesse avrebbe il governo Maduro a cadere nella trappola che porterebbe al “modello libico” e all’invasione militare che tanto reclamano le destre?
Ben pochi se lo chiedono, obnubilati da un’informazione tossica – questa sì di regime – che racconta un mondo al rovescio: quello in cui i golpisti vengono dipinti come difensori dei diritti umani e la rivolta dei ricchi come richiesta di libertà contro un’insopportabile dittatura.
Accadde così anche a Puente LLaguno, il 12 aprile del 2002. Durante il golpe contro Hugo Chávez, dei franchi tiratori spararono sulla folla di entrambi gli schieramenti per far credere alla violenza chavista e provocare il panico. Il caso volle, però, che una troupe di giornalisti stranieri scoprisse le manovre della CIA e potesse far emergere un’altra versione. Da allora, però, è passata molta altra acqua sotto i ponti. Acqua putrida e fango di guerra che ha reso l’informazione embedded sempre più pervasiva.
In questi giorni, arrivano dal Venezuela molti messaggi, video e testimonianze che smentiscono per via diretta la propaganda mediatica contro il governo Maduro. Anche noi abbiamo provato a stare fuori dal coro durante le violenze di piazza del 2014, raccontando “la rivolta dei ricchi”. Oggi anche quello spazio è appena uno spiraglio.
I giornali italiani, megafoni dei loro potenti terminali esterni, presentano una realtà capovolta: polizia che reprime, pacifici manifestanti “gasati” addirittura dagli elicotteri.
Un format già visto prima delle aggressioni militari imperialiste.
Nell’attesa della sempiterna sponda del cerchiobottismo, i tremebondi censurano o si girano di lato. Un vero e proprio insulto alla professione e all’intelligenza, da tempo in fuga insieme ai famosi “cervelli”. Giornalismo embedded che ha paura di nominarsi per quel che è: merce venduta dagli oligopoli per avallare la tesi che non esista via d’uscita dall’imbuto di crisi, guerra e menzogna in cui siamo infilati. Più semplice sarebbe dire: la torta la voglio io (la torta delle risorse e del loro controllo totale). Voglio che a star bene (anzi benissimo), sia l’élite di chi si salva affogando la testa del vicino: ossia quelle 60 famiglie che detengono la ricchezza del mondo. E infatti, dove sta scritto che ad aver ragione siano “quelli che stanno sotto”? Cento anni fa, la rivoluzione comunista ha dato una risposta e una speranza, consegnandoci senz’altro una domanda: dove sta scritto che gli oppressi siano capaci di far meglio dei propri oppressori? La partita è più che mai aperta, nel sud globale e in queste tristi sponde. Chi pensa di far meglio, si organizzi. Di fango e stelle è fatta la speranza.
“Attenzione, lì c’è una trappola… Occhio, a quell’incrocio hanno buttato l’olio… Non prendete la discesa, è piena di chiodi a tre punte…” I messaggi si rincorrono sulle reti sociali. Il Venezuela è in allerta per il golpe strisciante, nuovamente in marcia. L’11 aprile del 2002, c’è stato quello contro Chávez, riportato in sella a furor di popolo due giorni dopo.
Nel 2014, un nuovo tentativo di rovesciare il governo, questa volta contro Nicolas Maduro, eletto dopo la morte di Chávez. Bilancio, 43 morti e oltre 850 feriti, prevalentemente tra le forze dell’ordine e per colpi d’arma da fuoco. Filo spinato, olio, chiodi a tre punte sono materiale carissimo o quasi introvabile nel paese, stretto da quattro anni nella morsa del sabotaggio interno e internazionale: la guerra economico-finanziaria, articolazione essenziale nei colpi di stato di nuovo tipo…
Ma ai guarimberos (la guarimba è un vecchio gioco infantile, anche se in questo caso il termine suona grottesco) i mezzi non mancano. Vengono dai quartieri alti, quelli dell’est di Caracas. In prima fila, giovani di classe media, ma anche giovanissimi delle periferie che sono nati sotto il chavismo e non hanno conosciuto altri governi. Nei loro quartieri dove prima l’esercito procedeva al reclutamento forzato, oggi ci sono case popolari (già oltre 1,5 milioni) e scuole pubbliche, e un paese con un tasso di analfabetismo direttamente proporzionale a quello della povertà è diventato il quinto per matricole universitarie.
Ma, evidentemente, questo non è bastato se alcuni cartelli recitano: “No alla scuola pubblica”. Quando agiscono grandi interessi, puntare sulla cultura non basta. I guarimberos incappucciati prendono di mira le scuole pubbliche, i trasporti pubblici, i punti di distribuzione alimentare a prezzi calmierati. Immagini che i grandi media non mostrano per avvalorare la tesi dei “pacifici manifestanti” in lotta contro un regime dittatoriale: per nascondere il segno delle proteste e chi le guida.
Durante le violenze di questi giorni, alcuni giovani devastatori hanno confermato il copione di sempre, iniziato con le cosiddette rivoluzioni colorate dei paesi dell’Est. Ogni partito di opposizione ha offerto un proprio tariffario ai guarimberos: naturalmente in dollari, anche se in Venezuela i dollari non ci sono, perché la moneta nazionale è il bolivar.
I dollari si possono acquistare a tasso preferenziale dal governo solo per investire nell’economia del paese. Risulta, però, enormemente più redditizio rivenderli al mercato nero o trasferirli nei paradisi fiscali. Lorenzo Mendoza, il proprietario dell’impresa Polar – che controlla il grosso dei prodotti della canasta basica -, è uno dei miliardari più ricchi del mondo. E medita di presentarsi alle presidenziali come alternativa a Maduro. Nel nuovo quadro continentale in cui le destre sono tornate a governare, gli imprenditori vanno per la maggiore.
Ma la critica è sempre un buon esercizio, a ogni latitudine. Su quale treno sta correndo il chavismo e in quale direzione? Per le destre e gran parte delle istituzioni internazionali, verso l’abisso, a conferma che il socialismo non funziona, in tutte le sue declinazioni. Sulle “magnifiche sorti progressive” del capitalismo, ovviamente, non è d’uopo indagare.
Per il Partito comunista venezuelano, alcuni sindacati e correnti di autogestione, il motore è ingolfato da troppa burocrazia, troppo attendismo e un malriposto rispetto delle forme che ha portato la Procuratrice generale Luisa Ortega a criticare le decisioni dell’Alta Corte sull’inibizione del Parlamento “in ribellione”, ma non a processare gli oligopoli e l’evasione fiscale che hanno dissanguato il Venezuela.
Per gli “outsiders” di Marea Socialista, al contrario, la risposta sta nel gioco di fioretto e nella democrazia procedurale, anche se a volte cozza con quella “partecipativa e protagonista” contemplata nella Costituzione bolivariana. Proposte alternative? Nessuna.
Al chavismo, di certo si possono fare molte critiche: prima di tutto quella di non essere riuscito a realizzare la patria di Bengodi anziché quella di Bolivar… Di aver gonfiato i ministeri per dar lavoro alle persone, saldando sì il “grosso debito sociale” accumulato verso gli esclusi, ma foraggiando anche la burocrazia. Di aver creato benessere ma anche la “boli-borghesia” (la borghesia bolivariana). Di non aver espropriato di più le grandi imprese, favorendo così la produzione locale. O magari di averle fatte fuggire, per via dell’inamovibilità lavorativa e degli alti salari. Di aver depotenziato l’esercito e di averlo corrotto mettendolo nella vita politica con “l’unione civico-militare”. Di non aver disobbedito al debito estero, come inizialmente ha fatto Rafael Correa in Ecuador.
E si potrebbe continuare a seconda del punto da cui si agisce la scena. Fino ad avallare la denuncia delle destre secondo cui la polizia venezuelana avrebbe utilizzato gas tossico contro la propria popolazione?
Il governo Maduro ha risposto con la logica, prima che con l’etica: ma se dite che siamo in crisi umanitaria e che manca tutto, come potremmo avere una chimica così sofisticata? Soprattutto, però, ha ribadito la “vocazione di pace” delle forze armate bolivariane, eredi di una storia di “libertadores” e non di colonialisti e aggressori. Grazie a Cuba e ai paesi socialisti di nuovo tipo, la Celac (33 paesi americani meno Usa e Canada) ha dichiarato l’America latina e i Caraibi zona di pace.
Ma, dopo l’Iraq e la Libia, la guerra del petrolio passa adesso per il Venezuela. La Exxon Mobil, il cui ex direttore generale Rex Tillerson è ora il segretario di Stato di Trump, ha interessi in tutto il continente. “Trump è il vero difensore del popolo venezuelano”, ha dichiarato Lilian Tintori (moglie di Leopoldo Lopez, leader del partito di estrema destra Voluntad Popular) dopo avergli chiesto di intervenire in Venezuela. E il Parlamento a maggioranza di opposizione ha votato per l’intervento internazionale. Il 19 aprile, annunciano le destre, potrebbe arrivare dalla piazza la spallata finale.
di Geraldina Colotti
Fonte: megachip.globalist.it