Mentre Usa ed Ue si accaniscono a contrastare “la minaccia russa”, e la sua “aggressività”, cose interessanti avvengono in Cina.
Nei cantieri navali di Hudong Zhonghua di Shanghai, sta costruendo un grande mezzo navale da sbarco (nel gergo americano LPD Landing Platform Dock), come rivelato da foto satellitari del febbraio scorso. Scafo prefabbricato, il mezzo – Tipo 075 – sarà il più grande mezzo anfibio della Marina Popolare: con lo stesso dislocamento, sopra le 40 mila tonnellate, della porta-elicotteri da sbarco americana LHD (Landing Helicopter Dock) d’assalto polivalente – per confronto, il Mistral francese disloca la metà.
Contemporaneamente, ha annunciato sotto forma di indiscrezione di voler quintuplicare il suo attuale corpo di fanti di Marina (Marines, truppa d’assalto e da sbarco) da 20 mila a 100 mila uomini, da 2 a dieci brigate. Ha già raddoppiato le sue Divisioni di Fanteria di Marina Motorizzate (AMID, Air and Marine Interdiction Divisions). Nello stesso tempo, i comandi dell’esercito (Armata Popolare di Liberazione) hanno annunciato di volere ridurre la loro forza di 300 mila uomini. Evidentemente Pechino sta dando alla sua potenza militare complessiva un ri-orientamento strategico cruciale, da forza terrestre a potenza navale capace di “proiezione della forza” molto lontano dalle sue coste.
La sua marina militare cresce in volume e capacità offensive. I cantieri navali sfornano a spron battuto cacciatorpediniere Tipo 052D, fregate Tipo 054, corvette Tipo 0 56; naturalmente è significativa l’aggiunta alla flotta di almeno due incrociatori lanciamissili DDG [Guided missile destroyers] 055, di una portaerei di nuova classe interamente fabbricata in Cina, di due portaelicotteri da sbarco LHD di Tipo 071 che porterà a sei il numero di bastimenti di questa classe ed a cui si unirà presto il Tipo 075 in costruzione a Shanghai.
Tutta questo potenziamento navale ha a che fare con il completamento della nuova base strategica che Pechino ha impiantato a Gibuti, nel Corno d’Africa e con i sempre più sostenuti investimenti per il porto di Gwadar in Pakistan: questo, concepito inizialmente come piattaforma logistica del Corridonio Economico Cina-Pachistan e lo “One Belt One Road” (la via della seta marinara), sta diventando anche una base militare con il compito di garantire la sicurezza del commercio marittimo cinese – e del Pakistan.
Una gigantesca riconversione da terra a mare
E’ interessante notare come l’avanzamento della Cina nella zona del Golfo, così rovente, sia stato ottenuto stringendo accordi mutualmente utili coi diversi paesi costieri. A Obock, Gibuti, la sua base iniziata nel 2016, Pechino l’ha creata col dichiarato scopo di partecipare ad operazioni congiunte di lotta alla pirateria somala, ma anche di proteggere i suoi interessi in Africa dove ha tanto investito. Ora la struttura di Gibuti si sta evolvendo in una base navale capace di sostenere a lungo, nel tempo e nello spazio, le brigate di Marines cinesi coi loro mezzi anfibi destinati a proteggere in permanenza le rotte transitanti per il golfo di Aden, nonché di porto per i sottomarini che pattugliano l’Oceano Indiano. La base di Gibuti è vicinissima a quella americana di Camp Lemonnier, e ad una installazione molto più piccola delle forze navali giapponesi (Japanese Maritime Self Defense Force). La base serve a proteggere le vitali importazioni di greggio e gas della Cina, il 34% delle quali passa per il golfo di Aden. La base navale di Gwadar in Pakistan, oltre che a servire come scalo commerciale, fornisce la centrale d’operazione abbastanza vicina allo stretto di Ormuz, per cui passano tante risorse energetiche cinesi, e la cui chiusura per un conflitto o un atto di terrorismo configurerebbe un gravissimo danno per l’economia cinese. Le manovre militari di metà giugno con la marina iraniana hanno evidenziato la volontà cinese di collaborare con le potenze regionali a tenere aperto il terribile collo di bottiglia dello Stretto, ma beninteso ha mostrato agli altrui vicini – come ha detto l’ammiraglio Shen Hao, comandante della squadra impegnata nelle esercitazioni, che “l’Iran e la Cina sono due antiche civiltà con una lunga storia di amicizia”.
Sappiamo meglio, se non altro per l’opposizione, proteste e le provocazioni americane, della basi che Pechino sta costruendo nel Mar della Cina Meridionale e nello stretto di Malacca. Di qui passano 5 trilioni di dollari l’anno del commercio mondiale, di cui buona parte è l’import-export cinese; di qui l’interesse cinese di mettere in sicurezza la zona. E non solo per mantenerla aperta ai traffici navali, ma anche – come dimostra l’eccezionale sistema di fortificazioni che sta costruendo – anche a stabilirvi una “interdizione all’accesso – negazione all’accesso” a difesa avanzata dei suoi territori meridionali.
Tre isolotti, anzi tre barriere coralline, Mischief Reef, Fiery Cross Reef e Subi Reef, sono diventate basi militari con piste d’aviazione di 2500 e 2700 metri, hangar per gli aerei a prova di bomba, bunker per le munizioni, torri di radar avanzate, oltre che alloggi per il personale. Aerei da combattimento e missili terra-aria HQ9 sono stati dispiegati in certi periodi in queste basi. Porti e base di elicotteri sparsi in altri isolotti o atolli circostanti alla Cina il modo di affermare la presenza nella regione con una completezza irraggiungibile da qualunque altra potenza regionale, o dalla potenza internazionale che immaginate.
La Cina rinforza le sue posizioni anche nelle isole Paracel, contesele dal Vietnam (ci sono stati scontri fra i due paesi negli anni ’80), contesa ravvivata dalla scoperta in zona di petrolio. Apparentemente, Pechino sta attrezzando alcune di queste isole per servire in futuro a basi della guerra anti-sommergibile.
Fatto notevole, benché determinata nell’affermazione del suo “diritto” ad occupare quegli isolotti contesi, Pechino ha fatto tentativi diplomatici di calmare le tensioni coi vicini. Cosa che è parzialmente riuscita con le Filippine, con l’incontro personale fra Xi e Duterte a inizio anno, ed è fallita col Vietnam: il 20 giugno Vietnam e Cina hanno interrotto le discussioni militari che avrebbero dovuto in qualche modo appianare la disputa sulle Paracel. La delegazione cinese non ha apprezzato le manovre militari congiunte Vietnam-Usa ai primi di giugno, né la visita del capo del governo vietnamita in Usa e Giappone.
Resta il fatto che, mentre la superpotenza americana sa usare contro gli avversari potenziali solo il bastone della minaccia di intervento militare (e la vendita di armi agli “amici”), la Cina offre ai paesi coinvolti trattati mutualmente benefici. Lungo tutto il percorso della Via della Seta marittima, Pechino ha diffuso progetti di infrastrutture commerciali e di trasporto di energia che rendono vantaggioso per i paesi, e per le loro popolazioni, la partecipazione alla Via Marittima, nei decenni a venire. A Gwadar, la Cina ha posizionato anche una flotta della sua marina da guerra, mostrando la volontà di condividere, coi vantaggi economici, anche il fardello della difesa della rotta.
“Invece di offrire ai paesi la scelta fra il vassallaggio e l’invasione come fanno gli Stati Uniti, o un giuoco di regole economiche restrittive che avvantaggiano il suo autore come la UE, la Cina offre alle nazioni che collaborano alla sua Via della Seta un posto in tavola” (Brian Kalman, analista militare navale).
Un’altra fondamentale differenza: la Cina sta creando la sua potenza navale in stretto rapporto con la necessità di proteggere il suo gigantesco commercio per via marittima.
Cecità europea
Gli Stati Uniti per contro mantengono la flotta da guerra più grande del mondo e della storia, e tuttavia non hanno praticamente una marina mercantile. Gli Usa hanno fatto la scelta di subappaltare il trasporto marittimo ai loro partner e vassalli, e di dispiegare la sua marina da guerra nelle acque territoriali di detti vassalli. Di fatto, la cantieristica americana è quasi inesistente, producono solo piccoli bastimenti per il commercio costiero e le formidabili navi della loro flotta bellica.
Ora, l’ammiraglio americano Alfred Thayer Mahan (1840-1914), forse il massimo storico e stratega navale, aveva scritto:
“La necessità di una marina [da guerra] in senso stretto nasce come conseguenza dell’esistenza di un trasporto marittimo mercantile di cui bisogna assicurare lo svolgimento pacifico, e scompare con esso – a meno che una nazione abbia tendenze aggressive e mantenga una flotta potente che non sarà che un ramo del suo establishment militare” (Alfred Thayer Mahan, The Influence of Sea Power upon History 1660-1783).
I paesi europei, vassalli, vengono concentrati a sfidare il “pericolo russo” creato artificialmente, mentre la Russia è un paesetto in confronto alla Cina – il suo Pil è un decimo di quello americano – laddove la Cina è, fra gli avversari che storicamente gli Usa hanno avuto, il solo che per grandezza e potenza economica gli si avvicina.
La Germania nazista, nel 1943, pesava solo il 26 per cento del Prodotto interno lordo americano.
Il Giappone imperiale, il 13, 5%.
L’URSS, nel 1980, pesava il 40,4 per cento.
La Cina vale il 59, 4 per cento del Pil americano (2014).
Ciò significa che in caso di guerra, per la prima, volta, la vittoria americana non è affatto assicurata. Gli è piaciuto vincere facile, ma ora… Ora, le nazioni europee sono in posizione di beneficiare delle vie della Seta che la Cina sta costruendo, e non hanno la forza militare per minacciarla. Forse conviene lasciare soli gli Usa a fare la loro guerra finale.
di Maurizio Blondet
Fonte: maurizioblondet.it
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