Oggi, col Tpp statunitense affossato dalla Casa Bianca paladina del protezionismo, la Nuova Via della Seta rappresenta un orizzonte incontrastato nella globalizzazione del mercato contemporanea. Si passa da una nuova ferrovia ad alta velocità tra Cina e Laos al potenziamento della rete autostradale pakistana, dalla realizzazione di porti in Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Vietnam e Kenya alla costruzione di vie di comunicazione terrestri attraverso gli “stan” dell’ex Unione Sovietica. Una gigantesca rete di relazioni bilaterali e progetti infrastrutturali inserita in una piattaforma globale promossa da Pechino.
Nel 2013, con più di tre anni d’anticipo dall’inizio inaspettato dell’era Trump, il presidente Xi Jinping aveva svelato al mondo un progetto ambizioso destinato a segnare il suo (primo) mandato alla guida della Repubblica popolare cinese al fianco della campagna anticorruzione interna. L’idea era ed è accattivante: ora che la fase di transizione da “fabbrica del mondo” a Paese innovatore, ed enormemente influente sugli equilibri geopolitici mondiali, è sostanzialmente giunta al termine, la Cina è in grado di riprendere quella vocazione globale che già la rese grande in un’epoca imperiale che, nella sua storia, rappresenta più la norma che una parentesi di eccellenza.
Ecco quindi che, recuperando le antiche rotte commerciali della Via della Seta e le rotte marittime che dal Mar cinese conducevano ai porti dell’Africa orientale, ha iniziato a prendere forma l’imponente progetto chiamato One Belt, One Road (Obor), la globalizzazione con caratteristiche cinesi.
Via terra e via mare
Una gigantesca rete di relazioni bilaterali e progetti infrastrutturali che, inserita in una piattaforma globale promossa da Pechino, è destinata a dare un impulso inedito negli scambi commerciali via terra e via mare, garantendo una condivisione dei benefici economici a ogni stato membro assieme, soprattutto, alla tradizionale discrezione cinese rispetto agli affari interni di ciascuno: uniti nel business, ma nessuna ingerenza diretta nelle cose di casa propria (per le ingerenze indirette, come solito, la Storia è un po’ più complessa della propaganda).
Oggi, col Tpp statunitense affossato dalla Casa Bianca paladina del protezionismo, la Nuova Via della Seta rappresenta un orizzonte incontrastato nella globalizzazione del mercato contemporanea.
Al 2016, con soli tre anni di work in progress, la rete internazionale della Nuova Via della Seta comprende già più di 60 paesi tra Asia ed Europa, sempre più interconnessi grazie ai progetti infrastrutturali sovvenzionati da Pechino: si va da una nuova ferrovia ad alta velocità tra Cina e Laos al potenziamento della rete autostradale pakistana, dalla realizzazione di porti in Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Vietnam e Kenya alla costruzione di vie di comunicazione terrestri attraverso gli “stan” dell’ex Unione Sovietica.
Nonostante il progetto Obor non stia ancora girando a pieno ritmo, i risultati parziali sono già concretamente apprezzabili nell’aritmetica del commercio cinese: secondo i dati di Pechino, l’interscambio tra la Cina e i paesi aderenti alla Nuova Via della Seta nel 2015 ha superato quota un trilione di dollari, più di quanto la Repubblica popolare non faccia con Stati Uniti ed Europa, rispettivamente primo e secondo partner commerciale.
Frutto di una politica che, parafrasando un’analisi di McKinsey&Company, «mettendo in comunicazione e potenziando la produttività dei paesi lungo la Nuova Via della Seta, ha come obiettivo la condivisione dei benefici della cooperazione e il rafforzamento e allargamento del circolo di amicizia internazionale [con la Cina]».
Semplificando: gli investimenti di Pechino oltre la Grande Muraglia, secondo Xi Jinping, sono destinati a migliorare significativamente le condizioni socioeconomiche dei paesi membri del progetto Obor, innescando un meccanismo di interscambio virtuoso in cui tutti hanno qualcosa da guadagnare.
I capitali
L’iniezione di capitali viene effettuata attraverso strumenti finanziari ad hoc varati da Pechino negli ultimi anni, a cominciare dal Silk Road Fund cinese, con quaranta miliardi di dollari stanziati esclusivamente per lo sviluppo della Nuova Via della Seta.
Al fondo, sempre per iniziativa cinese, nel 2015 si è aggiunta la Asian Infrastructure Investment Bank (Aidb), con un capitale di 100 miliardi di dollari ripartito tra 50 membri internazionali con diritto di voto equiparato alla percentuale di fondi garantiti all’istituto: la Cina detiene una quota del 30,34 per cento, seguita da India (8,52 per cento), Russia (6,66 per cento), Germania (4,57 per cento), Australia, Indonesia, Francia, Regno Unito e Corea del Sud (tutte intorno al 3 per cento) e, tra le altre, anche l’Italia (2,62 per cento).
La Nuova Via della Seta, insomma, non solo appare una piattaforma globale aperta a tutti, ma col tramonto del Pivot to Asia di Obama prima e del Tpp poi, rappresenta di fatto l’unico progetto di interscambio davvero globalizzato a disposizione della comunità internazionale.
Sarà quindi interessante, il prossimo mese di maggio, scorrere la lista dei capi di Stato che si presenteranno al «grande meeting internazionale» a tema Nuova Via della Seta che si terrà a Pechino. Secondo il ministero degli esteri cinese, al momento già 20 leader provenienti da Asia, Europa, Africa e America Latina hanno confermato la propria presenza al summit. I nomi trapelano alla spicciolata: per ora sono dati per certi il primo ministro srilankese Ranil Wickremesinghe e il presidente di ferro filippino Rodrigo Duterte, ma con le indiscrezioni dell’invito ufficiale esteso alla britannica Theresa May. Per i prossimi tre mesi ci si aspettano non poche sorprese.
Fonte: idiavoli.com
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