La Repubblica Democratica del Congo è uno dei Paesi più ricchi di risorse dell’Africa: giacimenti d’oro, miniere di diamanti, uranio, rame, coltan e altri materiali preziosi. Eppure gli abitanti non possono in alcun modo beneficiare delle loro ingenti ricchezze. Secondo i dati della Banca Mondiale, infatti, il paese risulta essere uno dei più poveri del continente africano: l’80% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Come è possibile per un paese come il Congo, con una popolazione stimata in circa 50 milioni di abitanti ed enormi ricchezze?
Si tratta di una terra da sempre al centro di numerosi conflitti. Tutte le fazioni coinvolte nelle diverse fasi del conflitto sono state accomunate dal medesimo interesse ad accaparrarsi il controllo delle risorse naturali presenti, perché lo sfruttamento di queste risorse serviva per finanziare la guerra e alimentare gli interessi privati.
Con lo sviluppo della new economy è diventato di importanza strategica il Coltan, di cui il Congo possiede l’80% delle riserve mondiali. E’ un minerale da cui si estrae il tantalio, elemento indispensabile per l’industria high-tech, perché serve ad ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione, ad esempio nei telefonini, nelle videocamere e nei computer portatili. I condensatori al tantalio permettono un notevole risparmio energetico e quindi una maggiore efficienza dell’apparecchio. Probabilmente a rendere più interessante la risorsa contribuisce l’uranio radioattivo presente nel coltan. Ciò rende la sostanza un elemento essenziale per le industrie missilistica, nucleare ed aeronautica. Inoltre, il materiale è utilizzato per la costruzione di condensatori elettrici, air bag, visori notturni, materiali chirurgici, fibre ottiche e consolle come la PlayStation.
Il coltan ha un peso specifico simile a quello dell’oro ed ha pressappoco lo stesso valore, ha visto un aumento del 600% in tre anni. Le imprese hanno scatenato una vera e propria corsa alle miniere. Ciò ha generato nuovi scontri con le formazioni di guerriglia, anch’esse interessate al controllo dei giacimenti. Le concessioni e le miniere abusive di coltan si moltiplicano sotto il controllo di multinazionali e di bande armate. E’ difficile risalire a quali siano le società che acquistano coltan dal Congo. Tra i clienti sicuri figurano le compagnie Nokia, Ericsson e Sony.
Esiste inoltre un florido mercato nero del coltan, che viene rubato dai guerriglieri e poi rivenduto attraverso mediatori stranieri. Secondo i dati dell’Onu circa 1500 tonnellate del prezioso materiale sono state esportate illegalmente dall’Africa tra la fine del 1998 e l’estate 1999. Il traffico di coltan, ma anche di oro e diamanti, avrebbe fruttato ai guerriglieri del Raggruppamento Congolese per la Democrazia – RCD circa un milione di dollari al mese, che sarebbero stati impiegati per finanziare la guerra contro il governo di Kinshasha.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha istituito una commissione di inchiesta sul traffico illegale di materie prime dal Congo e sulle connessioni tra le attività illecite e il conflitto in corso. Un primo rapporto dell’Onu ha rivelato che “le attività commerciali delle imprese straniere presenti in Congo non possono essere qualificate come sfruttamento illegale, integrando già gli estremi di un vero e proprio “saccheggio sistematico” delle ricchezze del Paese”.
Secondo l’Onu i destinatari finali delle risorse saccheggiate sono, per ordine di importanza, Stati Uniti, Germania, Belgio e Kazakistan. Quali gli impatti sul territorio? Lo riferisce il Cdca – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali – che studia e divulga le cause e le conseguenze dei conflitti generati dallo sfruttamento delle risorse naturali e dei beni comuni nei Sud del Mondo.
I proventi dell’estrazione di coltan non sono stati neppure in minima parte reinvestiti nel sociale o ridistribuiti alle popolazioni locali danneggiate dalle attività. Diverse migliaia di persone sono state costrette a lasciare le proprie terre a causa delle espropriazioni forzate operate dalle imprese e dalle forze governative. Molti dei proventi delle attività estrattive sono serviti a finanziare la guerra;
Prima dello scoppio del conflitto il Kivu, la regione orientale del Congo, era un’area molto fertile ed era considerata il granaio del Paese. Riforniva di carne e prodotti agricoli la capitale Kinshasa, distante 1.600 chilometri. Con l’occupazione dei ribelli e il diffondersi della violenza, il canale commerciale è stato definitivamente interrotto e la gente ha dovuto abbandonare le attività abituali, comprese quelle agricole e pastorali necessarie per il sostentamento.
Le popolazioni indigene locali – i Pigmei – hanno più volte denunciato la svendita ed il saccheggio dei territori senza il loro consenso e con l’utilizzo di minacce e tecniche intimidatorie. L’estrazione selvaggia di coltan provoca l’uccisione incontrollata di animali selvatici per l’alimentazione delle migliaia di minatori abusivi che lavorano nelle miniere. Il Wwf ha denunciato che ciò sta mettendo in grave pericolo la fauna del parco nazionale di Kahuzi-Biega e della riserva di Okapi – due riserve naturali considerate universalmente protette dalla convenzione dell’Unesco World Heritage. L’uccisione di circa 3.600 elefanti e lo sterminio di più di 200 gorilla hanno dimezzato il numero degli esemplari delle due specie.
I moltissimi lavoratori, spesso bambini, impiegati nelle miniere di coltan sono esposti al rischio di malattie e contaminazioni da uranio, sostanza radioattiva presente nel coltan. Le popolazioni che abitano nelle zone vicine agli scavi e i lavoratori delle miniere hanno presentato un sensibile aumento nell’incidenza di tumori.
A chi tra gli occidentali pensa ancora che i conflitti congolesi siano guerre tribali risponde Jean-Léonard Touadi, congolese, giornalista, saggista, ex deputato e docente di Geografia dello Sviluppo in Africa, che sottolinea le grandi novità di questa guerra: “È facile catalogarla come una guerra tribale, secondo categorie occidentali, rimandando a concetti noti di etnie e tribù locali che si contrappongono tra loro. Una guerra lontana, etnica, “roba loro”. In realtà siamo di fronte a ‘tribù’ moderne. I Signori della Guerra che dominano queste terre di nessuno sono estremamente modernizzati: hanno telefoni satellitari, connessioni con grandi banche occidentali e collegamenti con paradisi fiscali, dove i soldi vengono versati direttamente sui conti esteri (rapporti ufficiali dell’Onu hanno certificato questa triangolazione).
Vi è un circolo vizioso tra materie prime che escono, fornitura delle armi e la guerra che continua perché nessuno ha interesse a fermarla. Dopo la caduta del muro di Berlino la maggior parte delle guerre in Africa ha avuto come mira la conquista delle materie prime. Il diamante, l’oro, il petrolio, il coltan proiettano paesi come la Liberia, il Sierra Leone, l’Angola, il Congo nella logica della globalizzazione.
E potremmo chiamarle guerre tribali solo se considerassimo anche le multinazionali che ne traggono profitto come delle grandi etnie, delle grandi tribù.
di Cristina Amoroso
Fonte: ilfarosulmondo.it
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