«Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: «Sono acerbi». Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze».
La volpe non ammette la sua incapacità, il suo insuccesso, la sua inadeguatezza. Ne soffre e quindi scatta il meccanismo mistificatorio: nega la realtà. Se avesse potuto, c’è da scommetterci, avrebbe fatto di tutto per impedire che altri vi potessero arrivare.
Siamo ad un passo da quella che oggi chiamiamo psicosi: la negazione dell’evidenza.
È forse interessante rilevare che da un punto di vista neurologico l’invidia è strettamente collegata ai meccanismi del dolore e in particolare a quella forma di dolore che alcuni definiscono “sociale”: l’area del cervello colpita dal disagio sociale si chiama “corteccia cingolata anteriore dorsale”.
L’attivazione in questa regione cerebrale si ha in risposta a un dolore sociale, come il senso di esclusione o nella percezione di come e quanto gli altri ci giudicano quando falliamo. E può quindi riflettere la caratteristica dolorosa di un’emozione legata al confronto sociale come l’invidia, con la sensazione di essere esclusi da un campo per sé rilevante. L’invidia, attenzione, è dunque dolorosa per sé, ma potenzialmente pericolosa (e quindi dolorosa) anche per gli altri.
Non a caso nella teologia cattolica è uno dei vizi capitali. Perché allora proviamo questa emozione? Perché l’invidia è come la paura, che è sgradevole ma ci prepara a reagire a un pericolo. È un campanello d’allarme: ci avverte che siamo perdenti nel confronto sociale e ci stimola in qualche modo a reagire. Tale reazione può essere sostanzialmente di due tipi: migliorativa (competizione sana: accetto la tua superiorità ed il mio difetto e cerco di migliorarmi) o peggiorativa (competizione malata: voglio negare la tua superiorità ed il mio difetto ignorando le differenze tra noi e quindi sostanzialmente annullandoti).
Non a caso parlare d’invidia è difficile. Forse in tanti la proviamo, senza rendercene conto o senza volerlo ammettere. «È l’emozione negativa più rifiutata. Perché ha in sé due elementi disonorevoli: l’ammissione di essere inferiore e il tentativo di danneggiare l’altro senza gareggiare a viso aperto ma in modo subdolo, considerato meschino» scriveva la prof.ssa D’Urso.
L’invidia genera dunque una distorta idea di giustizia che si traduce in un livellamento sociale di cui solo i più forti sanno poi trarre vantaggio (utilizzando, beninteso, l’invidia di tutti). Già per Kierkegaard l’invidia è un sintomo psicologico (forse già nell’accezione “sociale”, come noi lo intendiamo) di una mancanza di carattere, di una debolezza strutturale dell’io, di un senso d’inferiorità e di soggezione per i più forti, per quelli che Nietzsche chiama “i ben riusciti”.
L’invidioso tenderebbe a livellare tutto per nascondere – forse più a se stesso che agli altri – tale mancanza, elaborando strategie idonee ad abolire – come osserva Elena Pulcini in un suo bel saggio – «ogni pretesa di distinzione ed eccellenza». In questo modo,
«essa dà origine a una socialità che si costituisce all’insegna di un’aurea mediocritas nella quale a nessuno deve essere concesso di innalzarsi al di sopra della rassicurante uniformità della massa».
Già da questi spunti io credo si possa cogliere il motivo per cui è possibile considerare il nesso invidia-ideologia egualitaria come un grave ostacolo alla libertà, di cui qualcuno inevitabilmente sa trarre vantaggio.
Ma andiamo avanti.
L’invidia nasce da una disintegrazione interna e porta inevitabilmente ad una disintegrazione sociale, sempre nella forma mascherata del suo contrario (il livellamento, appunto: “mal comune, mezzo gaudio”). Il fatto che sia disgregante non può passare inosservato: là dove l’in-dividuo viene spinto alla scissione, alla riduzione a dividuo, daccapo, c’è sempre qualcuno che ne trae vantaggio.
La letteratura psicologica in materia ha spesso evidenziato come l’invidia possa avere radici molto profonde nella personalità: in modo sintomatico, essa può avere origine da una mancanza di affetto nelle prime fasi della propria storia evolutiva, o da desideri che sono stati frustrati, lasciando ferite che stentano a rimarginarsi.
L’invidioso prova un sentimento che lo costringe in un continuo stato di insoddisfazione, poiché nell’invidiare non c’è ombra di piacere o di realizzazione di sé, ma solo pena e sofferenza.
Secondo due psicologi americani, Sarah Hill e David Buss, l’invidia ha a che fare con chi ci sta vicino. Ma anche per Francis Bacon l’invidia necessita della possibilità di paragonarsi: infatti,
“quando non c’è paragone, non c’è invidia”.
Dunque, ancora una volta siamo nel pieno del paradosso: l’invidia sorge nella differenza stessa che poi in qualche modo pretende di negare. Potrebbe essere proprio questo corto-circuito a determinare la profonda sofferenza che l’invidia genera: prima nel soggetto, poi nella società intera.
Di norma infatti l’invidia, sebbene sia un sentimento logorante per chi lo prova, è sì distruttivo ma non patologico. Diventa malattia in un caso particolare, classificato come “invidia maligna”: quando cioè il soggetto regredisce allo stadio primordiale di questo sentimento, caratterizzato da ostilità, avversione, antipatia, odio molto intensi, in cui prevale l‘istinto aggressivo. Il soggetto identifica ciò che l’altro possiede, non tanto come qualcosa di intensamente desiderato, ma addirittura come qualcosa che gli è stato rubato. In conseguenza di questa percezione distorta della realtà, l’invidioso si sente ferito e, per difendersi, reagisce con violenza.
Le cose cambiano quando l’invidia diventa un fenomeno diffuso, di massa, magari indotto con sofisticate tecniche di ingegneria sociale. A quel punto, quando è una società intera a muoversi sotto lo stimolo del senso d’inferiorità, della frustrazione, della sistematica negazione di aspirazioni e desideri, il prodotto dell’invidia – la pretesa di parificare tutte le disuguaglianze sociali – diventa un problema coi fiocchi.
In quanto socialmente indotto con tecniche speciali, una difesa efficace all’urto che ne deriva non è affatto semplice: abbiamo ogni volta a che fare con un pubblico feroce, inconsapevolmente affamato e addestrato per isolare e attaccare sistematicamente chiunque si opponga ad un pensiero unico, politicamente corretto.
Così come suggerito dai tecnici dell’Impero.
di Alessandro Benigni
Tratto da: ontologismi.wordpress.com
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