Correva l’anno 2005 quando una canzone inattesa e abbagliante vinse il festival di Sanremo senza vincerlo davvero. Il brano si intitolava I bambini fanno oh e fu escluso dalla fase finale della manifestazione per una faccenda di scartoffie, ma in realtà il suo interprete, Giuseppe Povia, si rivelò il trionfatore morale di quella edizione della kermesse dei fiori. Da allora, il motivetto e il testo non ci hanno più abbandonati. Facciamo la prova: basta accennare, anche solo mentalmente, alle prime note e alle prime parole dell’incipit e la sua magia ci ritorna in mente, proprio come l’indimenticabile successo di Battisti. La ragione di fondo è la stessa: si tratta, in entrambi i casi, di capolavori. Quando la delicatezza naive di un testo, il suo trascinante refrain e la credibilità vocale dell’interprete si fondono, la sintesi miracolosa si compie. I bambini fanno oh entrò di diritto negli annali della discografia italiana rimanendo per venti settimane (diciannove consecutive) nella hit parade e aggiudicandosi sette dischi di platino. Succede alle opere d’arte e quel canto lo era. Pizzicava, con discrezione sapiente e genuina tenerezza, le corde di un universo da noi adulti separato, a noi adulti inattingibile, benché sperimentato nelle elementari della vita: la bella terra dei bambini e dei loro occhi innocenti incapaci di scorgere le colpevoli brutture del mondo. Povia ci riuscì ricorrendo a pochi versi insolitamente perfetti per un frammento di cultura notoriamente bassa come la musica pop (il Nobel a Dylan era di là da venire).
Perché ne parliamo ora, direte. Perché, cammina cammina, Povia ne ha fatta di strada ed è approdato a una stazione del viaggio che lo colloca ben oltre gli esiti – pur artisticamente straordinari e forse insuperabili – del suo esordio col botto. Nel 2016 è uscito il nuovo album, Nuovo Contrordine Mondiale, che vi invitiamo a scoprire al più presto. Lo definiamo con due aggettivi: commovente e straniante. Commovente come e quanto lo era I bambini fanno oh e per il medesimo motivo: saper tessere, in trame melodiche, la vena del poeta con lo sberleffo del clown. Ma fosse solo questo, non ci sarebbe bisogno del commento di chi si occupa abitualmente di politica, diritto o economia per celebrarne l’eccellenza. Ci sono riviste all’uopo destinate, si dirà. E proprio qui sta il problema che ci ha obbligati a metter mano alla tastiera e da cui discende il secondo attributo di cui sopra: straniante. Povia non passa molto per le radio, non fa abbastanza breccia in tv, è citato a fatica dagli addetti ai lavori, quantomeno rispetto all’immenso talento che ha. Eppure, moltiplica i concerti nelle piazze italiane, sforna infaticabile i suoi lavori, vanta un considerevole numero di fan vecchi e nuovi. Strano, vero? Davvero strano! Ma – così cantava Celentano – c’è sempre un motivo, a volte nascosto a volte intuitivo, se i fatti della vita vanno come vanno e le cose stanno come stanno.
Per farvela breve, l’autore de I Bambini fanno oh ha cominciato a dedicarsi a temi troppo scottanti per non esserne a sua volta scottato, a sdoganare verità troppo scomode per non ricevere l’altolà alla dogana del mercato. E pagare dazio. Si è incaponito a voler conoscere le storture della macchina, ha – benedetto lui – invaso terreni non propriamente congeniali a un musicista: quelli della politica, dell’economia, del diritto. E ha capito. Eccome se ha capito. Si è impratichito di nozioni di nicchia, da specialisti, ha messo in fila i puntini e ha cominciato a tirarne fuori ‘un fumetto di strane parole’ (per citare un estratto del suo pezzo del 2005).
Insomma, gli si è accesa una lampadina e ha preso a vedere le cose sotto la luce giusta nel fitto e ingiusto buio che c’è. Si è accorto di una sovranità popolare stritolata dai tentacoli delle cupole sovranazionali, ha sgonfiato le balle sul debito pubblico, ha fiutato l’aria inquinata dall’omologazione e dalla manipolazione, ha turbato il sonno delle masse ipnotizzate dalle panzane di regime. Quante ne ha combinate Povia, gente! Troppe per essere tollerato. E infatti non lo è. Proprio come agli albori venne escluso da Sanremo, egli oggi è bandito dai circuiti musicali fricchettoni. Il re nudo non permette al bambino sincero di gridarne la nudità. E Giuseppe Povia non solo la grida, ma la canta. La traduce in canzone. Questo è il succo della sua ultima opera: aver saputo concentrare in molecole di musica leggera, l’intero corpo mistico della mistificazione, ciò che la grande stampa di rado affronta (perché non vuole) e quasi mai approfondisce (perché non può).
Da qui, il prodigio di una collana di canzoni d’autore che, una buona volta, non sono solo canzonette. Ovviamente, facendo quello che ha fatto, rischiando ciò che ha rischiato, Povia ha commesso un peccato capitale, si è macchiato di una colpa non perdonabile dalle odierne inquisizioni. È come se Giuseppe si fosse, per masochismo e a bella posta, esiliato nell’isola che non c’è dei cantanti che non ci sono perché non devono essere visti. Da nessuno. Solo che il suo non è masochismo, ma eroismo civico. E a chi si cimenta con l’inosabile cosa puoi dirgli se non rendergli grazie? Non foss’altro che per il coraggio di mettere tutta la propria carriera su un piatto della bilancia per poi far pendere quest’ultima dal piatto opposto: quello della coscienza civile e dell’orazione morale, dell’impegno etico e della testimonianza sociale.
Qualcuno potrebbe suggerirci – spinto dal bisogno ossessivo di etichettare anche il fico più bizzarro del bigoncio – di piazzare Giuseppe Povia sotto una bella teca alla voce di cantautore impegnato. E di finirla qui. Dopotutto, ne abbiamo avuti a iosa – nella nostra storia patria – di cantanti attivisti. Quando fischiavano le pallottole degli anni di piombo, era tutto uno strimpellare di chitarre proletarie, di musica operaia e di strofe anti-borghesi. Per favore, non scherziamo. Quella generazione di suffragette prestate al pianobar non andava contro la corrente, ma nel suo verso, rifacendolo – quel verso – con petulanza insopportabile. Era una congrega adagiata, come un tuorlo nel suo letto di farina, tra le comode sponde dell’unica ideologia di riferimento, una kultura con la kappa, spocchiosa e prepotente, che ti faceva emergere solo se te ne dichiaravi succube. Quindi, paragonare Povia a quelli là non è solo offensivo; è proprio falso.
Povia giganteggia per la sua furibonda, eppur gentile, testardaggine di battersi contro i mulini a vento della correttezza politica e del disimpegno ottuso e servile. Insomma, la fuffa buffa a cui credono, e che spacciano, i bimbiminkia (così li definisce Giuseppe in un brano, mettendone alla berlina le ridicole ossessioni: se dici che va tutto male sei un disfattista, se dici che va tutto bene sei un qualunquista, se vedi tutto poco chiaro sei un complottista, se dici prima gli italiani fascista, se dici viva la nazione sei un populista). A sfogliare l’album dei ricordi, ci sovviene un solo altro cantautore della stessa statura: il grandissimo Rino Gaetano il quale, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso (da geniaccio picaresco qual era, veggente in un mondo di orbi), dovette ricorrere al non sense per decifrare l’insensatezza dei tempi. Ecco, Povia gli sta alla pari, ma se ne differenzia perché i suoi testi sono tutt’altro che assurdi: sono chiari come il diamante. E altrettanto preziosi.
Per concludere, non possiamo sapere se Giuseppe saprà fare di nuovo breccia nella cronaca del panorama musicale italiano (glielo auguriamo di tutto cuore, se non si è capito). Ma, più di quanto coltiviamo questa speranza, ci conforta una certezza: il suo lavoro è destinato a passare alla storia, magari piccola, ma importante, della canzone nazionale d’autore. I virtuosismi stilistici, musicali e soprattutto contenutistici di Nuovo contrordine mondiale emergeranno – statene pur certi – simili a un pezzo di legno sulla superficie del mare. E per quanto il coro dei media di massa (come in una tragedia greca) dovesse ostinarsi a ricacciarla giù, alla fine quella trave portentosa nell’occhio del Potere tornerà a galla per affascinare le nostre orecchie e provocare le nostre menti. In fin dei conti, in un certo Sistema, veder misconosciuti i propri meriti, per immeritate e torbide ragioni, è forse il merito più grande, quello di cui andare autenticamente fieri. Quanto a noi, ringraziamo il Cielo: abbiamo trovato un artista così bravo da capire e così pazzo da farcelo capire. Teniamocelo stretto, magari facciamone la colonna sonora dei nostri giorni e anche dei prossimi appuntamenti in cabina elettorale. In un’epoca in cui si esige da noi un sì convinto a qualsiasi versione ufficiale, a qualsiasi riforma strutturale, a qualsiasi truffa costituzionale, possiamo quantomeno cantargli, a lorsignori: i bambini fanno NO.
di Francesco Carraro
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