“….Chi gliele aveva date? Il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, lo stesso che come direttore della Nsa ha portato le prove dell’interferenza degli hacker russi nelle recenti elezioni presidenziali americane”.
È il novembre 2015 quando France 5, canale pubblico di informazione, invia una giornalista a intervistare Ahmad Chalabi, l’uomo politico scelto da Washington per guidare l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003: Time gli dedicò allora una cover story intitolata al “George Washington iracheno”. La parabola politica di Chalabi è nota, un po’ meno chiaro è come contribuì alla guerra e persino la sua fine lascia più di qualche dubbio.
Fu lui fu il grande ispiratore della madre di tutte le bufale: le armi di distruzione di massa irachene.
L’intervista con France 5 si rivela laboriosa. La giornalista alla fine riesce a ottenere il sospirato incontro: è il tardo pomeriggio del 2 novembre del 2015. Le domande sono riferite quasi tutte a una questione. Come fu costruito il dossier americano che imputava a Saddam il possesso di un arsenale chimico e biologico che non fu mai trovato e costituì una delle basi legali all’intervento militare che ha segnato l’inizio della disgregazione del Medio Oriente?
Quando la tv francese mi ha raccontato la storia di questa intervista ha ovviamente sollevato il mio interesse. Come inviato seguo sul campo gli eventi mediorientali da oltre 35 anni e in Iraq ho trascorso molto tempo, in particolare oltre cinque mesi di fila tra la fine del 2002 e la primavera del 2003 quando cadde il regime baathista.
L’arsenale di Saddam era materia di articoli quasi quotidiani. Eravamo inondati da centinaia di pagine di rapporti del dipartimento di Stato, del Pentagono di think tank Usa e britannici. Faldoni enormi, densi di dati e di riferimenti: per sfogliarli ogni giornalista all’epoca spese intere settimane.
A Baghdad l’arsenale proibito di Saddam si “materializzo” davanti agli occhi dei reporter, come in un gioco di prestigio. Squadre di ispettori dell’Onu percorrevano l’Iraq alla ricerca di prove. Nella capitale sbucavano su jeep bianche con la bandiera delle Nazioni Unite, entravano negli edifici del regime e ne uscivano con montagne di incartamenti. Erano quelle le prove?
Talvolta i giornalisti erano invitati a verificare le accuse. Fu così che un giorno andai a Falluja dove in una spianata sassosa si potevano vedere delle strutture di metallo assai sghembe, che sembravano disegnate un geometra distratto: ci fu detto che erano rampe di lancio di missili da armare con testate chimiche. Eppure i famosi Scud di Saddam, sottoposto a sanzioni da oltre 12 anni, dovevano essere quasi tutti spariti da tempo. Infatti durante la guerra non vennero mai usati.
Le accuse potevano sembrare credibili. Nel 1988 avevo visto i sopravvissuti di Halabja, la popolazione curda irachena colpita dai gas di Baghdad che avevano fatto cinquemila morti. Ricordavo benissimo che allora nessuno aveva rivolto alcuna accusa al regime perché combatteva contro l’Iran di Khomeini.
Per costruire delle menzogne credibili serve sempre un fondo di verità e Saddam aveva un fedina piuttosto lunga che non deponeva a suo favore.
Il regime negava tutto. Nel febbraio del 2003, mentre aspettavamo l’attacco americano, il braccio destro di Saddam, Tarek Aziz, che avevo incontrato diverse volte, mi invitò nel suo ufficio. Davanti alla scrivania aveva una montagna di carte da firmare mentre la tv, sintonizzata su Cnn, trasmetteva il discorso del segretario di stato Colin Powell alle Nazioni Unite: stava mostrando le prove della famosa “pistola fumante”, le foto satellitari delle armi di distruzione di massa.
Chi gliele aveva date? Il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, lo stesso che come direttore della Nsa ha portato le prove dell’interferenza degli hacker russi nelle recenti elezioni presidenziali americane.
Tarek Aziz continuò a sfogliare le carte senza alzare lo sguardo alla tv e gli chiesi cosa ne pensasse del discorso di Powell. “ Credo – disse – che ci faranno la guerra anche se gli consegneremo l’ultimo dei nostri kalashnikov”.
Come è stato possibile costruire il dossier contro l’Iraq di Saddam? “Semplice – ha risposto Chalabi alla giornalista di France 5 – gli americani già nel 2001-2002 mi chiesero riferimenti e persone che avrebbero potuto essere utili a costruire un’accusa sulle armi di Saddam e io ho fornito agli Stati Uniti questi elementi: non mi sento colpevole, sono stati gli americani poi a trarre le conclusioni”.
Ora sappiamo, anche in base al rapporto di John Chilcot, presidente della commissione d’inchiesta britannica, che l’intervento militare Usa in Iraq del 2003, sostenuto caldamente da Tony Blair, era basato su falsi rapporti.
La giornalista di France 5 poteva ritenersi soddisfatta: l’intervista a Chalabi era costata mesi di attesa.
Il giorno seguente all’incontro con Chalabi, il 3 novembre 2015, stava esaminando nella sua stanza d’albergo a Baghdad il materiale raccolto. La notizia arrivò all’improvviso: Chalabi era stato appena trovato morto, apparentemente vittima di un attacco di cuore. Nel filmato ammetteva la sua complicità nella raccolta delle false accuse contro Saddam sulle armi di distruzione di massa e faceva dei nomi: ma questa era stata la sua ultima intervista. Alla giornalista non restò che correre in aereoporto e dileguarsi con il primo volo utile per Beirut. Di solito questi non sono buoni segnali.
La madre di tutte le bufale è nata dentro al sistema politico e di propaganda anglo-americano che non ha mai smesso di produrre la “verità del momento”. E gli altri, come i russi o cinesi, hanno cominciato a imitarlo. Non solo, ha continuato a sostenerla e oggi il sistema che produce bufale può godere dell’aiuto dei social network, di Facebook, di Twitter, di centinaia di siti e blog le cui notizie sono spesso false o inverificabili.
Non c’è più bisogno di inviare come un tempo ai giornalisti voluminosi faldoni che davano al tutto una parvenza di serietà: basta andare sul web e la verità del momento si diffonde come un virus.
Ma di menzogne come quella colossale dell’Iraq si continua a morire. Ogni tanto qualcuno insegna ad altri un mestiere che non ha mai fatto. Non capisco bene cosa sia questa post-verità, sembra una formuletta dove, per esempio nel giornalismo, nascondere un po’ di fumo e scarsa voglia di lavorare e approfondire. La verità spesso non si ottiene subito ma per approssimazione accumulando informazioni e studiando, bene, quello di cui si scrive. Per il giornalista è fondamentale andare sul posto, consumare la suola delle scarpe, avvicinarsi il più possibile al punto di osservazione degli eventi e poi sapersene anche distaccare e mettere a fuoco meglio la situazione. Il giornalista può ovviamente sbagliare e deve sapersi correggere non affezionandosi a comodi schemi di interpretazione. Credo che sia il lavoro che fanno in molti dedicandosi a questo mestiere tutti i giorni per anni, a volte anche a rischio della pelle, per cui la post verità sembra già in sè una bufala propagandata da chi vuole campare sul lavoro altrui.
Appurare i fatti è un lavoro individuale ma si fa ancora meglio in una democrazia dove può diventare uno sforzo collettivo e tutto può essere utile: è una grande opportunità di cui non bisogna avere paura. La post-verità è il riflesso della pigrizia e della paura di conoscere.
A meno che non ci si voglia arrendere alla famosa frase di Donald Rumsfeld, l’ex segretario di stato USA. Interpellato sulle armi di distruzione di massa in Iraq e la mancanza di fondamento di quelle accuse, ha detto: “L’assenza di una prova non è la prova di un’assenza”. La madre delle bufale non si stanca di lavorare.
di Alberto Negri
Fonte: Il Sole 24 Ore.
Tratto da: lantidiplomatico.it
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