Mentre Kerry rilancia la soluzione a due Stati, il neo presidente Usa può segnare «la fine di ogni speranza». Tra insediamenti e volontà di spostare l’ambasciata a Gerusalemme. Lo storico ebreo LeVine a L43.
Prima il “nulla osta” agli insediamenti in Cisgiordania. Poi la volonta espressa di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Infine la nomina dell’avvocato newyorchese David Friedman a rappresentante diplomatico di Washington in Israele. Donald Trump non si è ancora insediato alla Casa Bianca, ma le sue parole e decisioni hanno già creato più di un malumore a cavallo della West Bank, mentre il segretario di Stato americano John Kerry ha ribadito che la soluzione a due Stati è l’unica strada per una pace duratura.
LE DONAZIONI DEL COGNATO DI TRUMP. Friedman, oltre a non avere alcuna esperienza nel campo diplomatico, è apertamente contrario alla nascita di uno Stato palestinese ed è presidente dell’associazione American Friends of Bet El, uno dei più grossi insediamenti coloniali israeliani su terra privata in Cisgiordania, contrari alla legge internazionale. Tra i contributi privati all’associazione vale la pena citare i 20 mila dollari dati da Jared Kushner, cognato di Trump.
LE RESPONSABILITÀ DI OBAMA. L’approccio di Trump a una delle questioni più delicate del Medio Oriente può segnare «la fine di ogni speranza, almeno per ora, di un valido processo di pace» tra israeliani e palestinesi, dice a Lettera43.it Mark LeVine, ebreo, professore di storia alla University of California Irvine. Secondo LeVine, questo spostamento a destra di Trump «è stato in qualche modo preparato da Obama stesso, che durante il suo mandato non ha mostrato la determinazione necessaria per opporsi alla protervia israeliana».

Mark LeVine, ebreo, professore di storia alla University of California Irvine.
DOMANDA. La scelta di Friedman pare ricalcare le posizioni di Trump, almeno in campagna elettorale.
RISPOSTA. Sì, ma al tempo stesso non dimentichiamo che James Mattis, nominato a Segretario per la Difesa, ha descritto l’attitudine israeliana come una grossa minaccia alla pace.
D. Cosa può avere portato alla scelta di Friedman?
R. È un riflesso della vicinanza di Trump ai circoli ebrei repubblicani di New York, attraverso il business immobiliare e non solo, tipicamente sostenitori hardcore degli insediamenti illegali in Cisgiordania.
D. Chi per esempio?
R. Basti pensare a Sheldon Adelson, il magnate dei casinò e terzo uomo più ricco negli Usa.
D. Ci sono però anche molti ebrei progressisti a New York.
R. Sì, ma quelli nelle posizioni di potere, come appunto Friedman, hanno un’attitudine opposta verso la colonizzazione israeliana delle terre palestinesi. E questo vale anche per certi democratici.
D. Esiste una possibilità che la candidatura di Friedman non passi il vaglio del Congresso?
R. Ci sarà una certa opposizione, che verrà notata, ma credo che alla fine la sua nomina verrà confermata.
D. E il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme?
R. Non potrà avvenire ipso facto. Ci vorranno degli studi e soprattutto dovrà passare il Jerusalem Embassy Act che risale al 1995 ed è ancora fermo in Congresso. Ci vorranno quattro anni.
D. Per i palestinesi cosa può significare questa scelta di Trump?
R. La fine di ogni speranza, almeno per ora, di un valido processo di pace. Obama, diversamente dalla Clinton, non era un grande amico di Netanyahu e non era favorevole agli insediamenti, anche se in realtà non ha fatto nulla in otto anni e per di più ha aiutato militarmente Israele.
D. A parte il netto giudizio sulla nomina di Friedman di Ekrama Sabri, noto imam della moschea al Aqsa di Gerusalemme, non c’è stata una grossa reazione tra i leader palestinesi, a partire da Abu Mazen.
R. La realtà è che Israele continua a fare quel che vuole e gli Usa, anche sotto Obama, non l’hanno intralciato, soprattutto nella politica di occupazione. Quindi Friedman è una novità, ma fino a un certo punto.
Trump porterà a un’ulteriore divisione nella comunità ebrea americana
D. Nel processo di pace si è giunti a uno stallo totale?
R. Ormai è come se i palestinesi si fossero abituati all’umiliazione giornaliera nelle loro terre. Potranno esserci delle rivolte e qualche atto terroristico, ma la realtà è e rimane bieca.
D. La politica di Trump porterà a un’ulteriore divisione nella comunità ebrea americana?
R. Decisamente e bisogna vedere questo nell’ambito della divisione già esistente in questa comunità.
D. Che sarebbe?
R. Quella tra la maggioranza degli ebrei fondamentalmente integrati nella società americana e in buona parte liberal e una minoranza di ebrei ortodossi legati con una specie di cordone ombelicale all’Israele degli insediamenti.
D. Una minoranza che però sembra aver preso il sopravvento.
R. Purtroppo, con l’avvento Trump, sembrerebbe di sì.
D. C’è in Bernie Sanders, ebreo, un contrappeso di rilievo?
R. No. Qualcosa fa, ma non mi pare abbastanza forte: è ancora troppo politico.
D. E i suoi sostenitori?
R. Tutto dipenderà da Trump stesso. Se sarà abbastanza furbo da ammorbidire le sue posizioni e arrivare a una posizione semi-moderata, potrà anche disarmare in qualche modo i suoi oppositori prima che si riorganizzino.
D. Sta dicendo che c’è una certa stanchezza nel movimento anti-Trump?
R. Sì, è come se i suoi oppositori stessero aspettando di vedere quel che farà.
D. Oltre che con Washington, Israele si sta riavvicinando anche a Mosca…
R. In realtà, Israele e la Russia si sono riavvicinati sempre di più dopo la fine dell’Urss. Non dimentichiamo la forte emigrazione di russi ebrei in Israele. D’altra parte, possiamo notare che c’è un filo rosso che collega Trump, Putin e Netanyahu.
D. Quale?
R. Stiamo parlando di personaggi autoritari che non hanno grande rispetto per la legge e per i diritti umani. Il loro vero comune nemico sono i progressisti e tutti coloro che hanno a cuore una visione re-distributiva della società.
di Attilio de Alberi
Fonte: lettera43.it