I veri razzisti. Francesco Lamendola - www.altreinfo.org

I veri razzisti. Francesco Lamendola

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Che i veri razzisti, oggi, non siano quelli che erano tali un tempo, ma che le parti si siano rovesciate; e cioè che i veri razzisti, oggi, siano gli “altri”, i “diversi”, i “lontani” (anche se non sono affatto lontani, sono qui fra noi e ci stanno rapidamente sostituendo), ormai chiunque possieda anche solo un minimo di lucidità e di onestà intellettuale l’ha capito da un pezzo. Del resto, l’hanno capito pure i bambini. Basta domandarlo a una maestra elementare, nelle nuove classi piene di figli d’immigrati: è sufficiente che un bambino africano si lamenti: Maestra, Giovanni mi da chiamato “sporco negro!”, e subito il colpevole verrà adeguatamente redarguito, anche se non è vero affatto che aveva detto una frase del genere. Ma tant’è, quando le minoranze scoprono la forza poderosa del ricatto morale, per la maggioranza è finita; e la sua fine sarà un suicidio.

Oggi è diventato praticamente impossibile denunciare i cattivi comportamenti degli stranieri che a centinaia di migliaia, a milioni, stanno invadendo i nostri paesi e il nostro continente, stanno sommergendo le nostre tradizioni e la nostra stessa civiltà sotto il peso della loro capacità di espansione demografica. Siamo arrivati a un punto tale di auto-censura, che il papa non osa nemmeno nominare il “terrorismo islamico”, per timore di offendere gli islamici; che maestre, preti e vescovi cominciano a rinunciare ai segni visibili della identità cristiana ed europea, il crocifisso, il presepio, i canti di Natale,  per una forma malintesa di “rispetto” verso gli stranieri; che i giornali non osano pubblicare la nazionalità di un delinquente, di un rapinatore, di uno stupratore, per timore che dire la verità, ossia che si tratta di un albanese, di un marocchino, di un nigeriano, possa suonare come un atto d’intollerabile discriminazione, una presunzione etnocentrica, se non proprio come una manifestazione di razzismo bella e buona.

Un buon esempio di questo razzismo alla rovescia, finalmente esplicito e dichiarato, anzi, addirittura gridato, è offerto dal giornalista Paolo Veronese, classe 1952, inviato speciale del padre di tutti i giornali progressisti e politicamente corretti, dunque antirazzisti, La Repubblica; ecco cosa dichiara al termine del suo libro Africa. Reportages (Roma-Bari, Laterza, 1999, pp.173-174):

Un giorno o l’altro bisognerà liberarsi di tanta correttezza politica, di tanto perbenismo intellettuale, e osare dire come uno la pensa veramente. No, gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori. E superiore a tutte è l’africana.

Prendete uno di noi, cittadino di un qualsiasi paese europeo, con le sue abitudini, le sue certezze, il negozio di alimentari sotto casa, la tv, il riscaldamento, la metropolitana, la settimana bianca de le ferie esotiche comprate all’agenzia di viaggi. Paracadutatelo in una città africana, in una periferia di baracche, oppure in un villaggio lontano da tutto. Non credo che reggerebbe a lungo a quella vita durissima. Soccomberebbe presto. Gli africani, invece, tirano avanti e sono capaci, nella loro miseria, nell’incertezza dell’oggi e del domani, di un sorriso, di un gesto d’ospitalità, di un atto di solidarietà tirato fuori – come nel miracolo [sic] di un prestigiatore – dal vuoto della più totale privazione.

L’Africa è un continente di sopravvissuti. Agli stenti, alle guerre, alle angherie di un potente che pressoché ovunque arbitrario, vessatorio, corrotto e concepisce se stesso come privilegio, mai come servizio. Alla violenza, che è parte integrante della tradizione, ma anche l’unico frutto della modernità che abbondi. Alla mancanza di garanzie, di sicurezze, di autorità che non siano quelle del villaggio: gli anziani, i capi, lo stregone. Sono, gli africani, un’umanità che ha fatto della pazienza una virtù continentale, dell’umiltà la regola numero uno della sopravvivenza, dello humour l’unica forma di svago, d’intrattenimento, di distrazione. Nessuno come loro sa ridere di sé medesimo, dei potenti, dei casi della vita. Sono, gli africani, i napoletani del mondo: e, come questo, eccellono nell’arte di arrangiarsi, nel genio di trovare espedienti che sono al tempo stesso soluzione ai problemi e sberleffo a chi li ha creati. Se si potesse trasformare in prodotto nazionale lordo la capacità che hanno gli africani di inventare, riciclare, adattare se stessi e le cose, di superare gli ostacoli con una soluzione trovata guardandosi attorno, allora sì che l’Africa sarebbe ricca, ricchissima.

Ecco finalmente che i veri razzisti gettano la maschera: complimenti per la sincerità. Anche se poi, a ben guardare, è la solita sincerità di facciata dei tanti intellettuali, e sedicenti tali, progressisti, mondialisti, umanitaristi e buonisti: che cosa vuol dire, infatti, che un giorno o l’altro bisognerà liberarsi di tanta correttezza politica, di tanto perbenismo intellettuale, e osare dire come uno la pensa veramente? No, lui sta già facendo; lo sta facendo e sa di poterlo fare, cioè, non si sta affatto liberando della correttezza politica, altrimenti non glielo lascerebbero fare, e non pubblicherebbe i suoi scritti su uno dei due maggiori quotidiani nazionali, e con una delle maggiori case editrici italiane, entrambi rigorosamente progressisti e devotamente antifascisti; no: sta facendo esattamente il contrario. Infatti, quando dichiara, con tono di (finta) sfida e di (finto) coraggio: No, gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori. E superiore a tutte è l’africana, non sta andando contro il politicamente corretto, ma sta proclamando il Nuovo Vangelo del Politicamente Corretto. Per convincersene, basta fare la controprova: immaginare che lui, o chiunque altro, dicano una frase di questo tipo: No, gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori. E superiore a tutte è la razza bianca. Allora sì, che si scatenerebbe l’inferno! Ci sarebbe una levata di scudi universale; pontificherebbero e si straccerebbero le vesti tutti i Soloni del politicamente corretto; e il poveretto avrebbe finito di scrivere articoli per i maggiori giornali, e di pubblicare libri con le più prestigiose case editrici. Basta, finito, chiuso per sempre. Come! Asserire che le razze non sono uguali, e che la razza bianca è superiore a tutte quante! Questo sì, che sarebbe un crimine. Scherziamo! Non siamo mica più ai tempi delle leggi razziali fasciste, perdiana! Invece, dire che le razze esistono e che la razza africana è superiore a tutte, questo sì che va bene, questo sì che piace a tutto l’establishment politicamente corretto, progressista e di sinistra, terzomondista e “illuminato”. Sono sempre uguali, questi intellettuali progressisti a un tanto il chilo: sfidano là dove non c’è nulla da rischiare, e si cacciano la coda tra le gambe quando, invece, il rischio c’è davvero, perché si tratta di andare contro i poteri forti e contro la cultura dominante.

Quanto al merito dell’affermazione sulla superiorità della razza africana, li conosciamo, questi signori progressisti e paladini delle Giuste Cause, purché di sinistra: nipotini orfani di Rousseau, pieni di nostalgia per il Buon Selvaggio, s’innamorano a prima vista di tutti quei popoli, di tutte quelle società, di tutte quelle usanze, che sono agli antipodi della nostra (e loro, fino a prova contraria); beninteso, non disdegnano i vantaggi e i piccoli (o meno piccoli) privilegi che quest’ultima distribuisce con una certa generosità: per esempio, quello di essere discretamente pagati per distribuire perle di saggezza da Baci Perugina sotto forma di reportage giornalistici; ma sì, è bello lodare il Buon Selvaggio, e disprezzare il negozio di alimentari sotto casa, e il riscaldamento per l’inverno, quando si sa di avere l’una e l’altra cosa. Predicatori della “purezza” indigena e primitiva, con il cellulare e il computer sempre a portata di mano; laudatori della Sobrietà e della Solidarietà dei negri, degli asiatici, degli indios, degli aborigeni, degli eschimesi, di tutti, tranne che degli infami europei, due volte infami se cristiani. Giornalisti e scrittori fatti con lo stampino, vengono fuori in serie dalle fabbriche del Poltically Correct, come le matrjoske; e quanto più snocciolano banalità e insulsaggini melense, tanto più si sentono gli araldi della Saggezza e i Profeti del Mondo Nuovo. In verità, c’è solo un gradino che giace più in basso della omologazione conformista politicamente corretta: quello che si scende quando ci si atteggia a contestatori del Sistema, a ribelli contro l’Autorità, ma intanto si fa e si dice proprio quel che il Sistema vuole sentirsi dire, e – cosa non certo disprezzabile – si continua a mangiare alla sua greppia e ad avvalersi di tutti i suoi agganci le sue omologazioni. Sono proprio i figli e i nipoti legittimi del ’68: che bello, che cuccagna, che goduria giocare alla rivoluzione, ma coi soldi di papà; dir peste e corna della bieca scuola “borghese”, ma diplomarsi a forza di sei politico, benché ignoranti come capre.

Quando uno, uno soli di questi signorini innamorati dell’Altro, avrà il fegato di dire: No, gli uomini non sono tutti uguali; le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori, e la bianca è superiore a tutte, allora, e allora soltanto, potremo dire d’aver trovato uno che ha il coraggio di andare controcorrente; quando ce ne sarà uno solo che oserà dire che gli africani sono essi stessi, almeno in parte, i responsabili della loro arretratezza, della loro miseria, delle loro sofferenze; che i mau mau non furono eroi dell’indipendenza del Kenya, ma atroci assassini e che ammazzarono migliaia di africani e una cinquantina di bianchi, metà dei quali civili indifesi, fra cui donne e bambini; che i popoli africani si sono consegnati in ostaggio, per secoli e millenni, al potere tirannico di stregoni malvagi e spietati, subendo il terrore da essi imposto; che dittatori da Grand Guignol, come Bokassa e Idi Amin Dada, furono partoriti dai loro popoli e non piovvero giù da Marte (anche se, indubbiamente, le ex potenze coloniali vi ebbero lo zampino); e che la tratta degli schiavi, sia sulla costa occidentale dell’Africa, dove agivano i commercianti bianchi, sia su quella orientale, dove spadroneggiavano i mercanti arabi, fu resa possibile dalla attiva collaborazione degli stessi africani, continuamente invischiati nelle loro faide tribali, senza pietà e senza misericordia per nessuno: ecco, quando ciò accadrà, allora diremo che costui ha saputo spezzare i vincoli ferrei del pensiero Politicamente Corretto.

A chi è davvero libero dal ricatto del perbenismo intellettuale, non costa alcuna fatica ammettere che la civiltà europea ha le sue colpe, accanto ai suoi grandissimi meriti: solo un imbecille può pensare che tutto il bene stia da una sola parte, e tutto il male dall’altra. Quel che sbagliano i signorini dell’establishment culturale di sinistra, è il bersaglio con cui se la prendono: non dovrebbero avercela con la civiltà europea in se stessa, che li ha partoriti, ha insegnato loro valori universali e ha offerto loro la possibilità di cogliere occasioni che mai, in Africa, in Asia o in America Latina – nei paradisi del Buon Selvaggio – sarebbero state offerte loro. Ciò di cui l’europeo si dovrebbe vergognare non è né il Vangelo, né quel che dal Vangelo è scaturito: Dante e San Tommaso, le cattedrali e i teatri, Bach e Van Gogh (e senza dimenticare quel che viene prima del Vangelo, ossia le radici greche e romane); ma è piuttosto quella degenerazione, quella malattia che si chiama modernità. Si può, si deve essere antimoderni senza essere anticristiani e antieuropei; senza odiare e disprezzare le propri radici, ma, anzi, amandole e ritornando ad esse. L’errore, macroscopico e in perfetta mala fede, dei signorini progressisti, è di buttar via il neonato insieme ai pannolini sporchi: cioè il pensare che, se i crimini della modernità vengono dalla nostra storia, allora tutta la nostra storia deve essere buttata via, e noi dobbiamo andare a lezione dagli stregoni africani, o dai mau mau, o dal primo Buon Selvaggio (che magari è un tantino cattivello, ma questo non lo si deve dire in giro) nel quale ci capita d‘imbatterci. E se invece del Buon Selvaggio è nel Buon Rivoluzionario che s’imbattono, come diceva Carlos Rangel, allora tanto meglio: al mito della umanità buona e primitiva, quello di Rousseau, si sommerà il fascino romantico della lotta per la libertà e la giustizia, quello di Marx. La sintesi perfetta è data da Ernesto “Che” Guevara, il cui ritratto, non a caso, ha campeggiato sul muro della cameretta di migliaia e migliaia di codesti signorini, al posto di Gesù Cristo che campeggiava nelle stanze dei loro nonni; di questi “compagni” ed ex compagni di sessantottesca memoria, i quali, dopo aver mostrato di non aver capito niente del mondo che stava venendo avanti, e aver fatto di tutto, ma proprio di tutto, per schierarsi, fino all’ultimo, dalla parte sbagliata, ora vorrebbero, dall’alto della loro Scienza infallibile, istruirci ed insegnarci, proprio come allora, col ditino alzato, col ditino accusatorio sempre puntato contro qualcuno, che nella loro giovinezza indicava al pubblico ludibrio il miserabile “borghese”, e oggi indica il miserabile “razzista”: cioè chi non accetta il dogma della superiorità della razza africana. In fondo, è abbastanza semplice. Questi signori si portano dentro un tale grumo d’infelicità e disprezzo di sé, che, inconsciamente, desiderano morire. Vorrebbero, però, morire in buona compagnia: vorrebbero che tutto il nostro continente si suicidasse insieme a loro. Nel modo più pacifico e indolore: smettendo di far figli, e accogliendo milioni d’immigrati africani e asiatici, i quali, di figli, ne fanno più che a sufficienza. Ma hanno fatto male i loro conti. Può darsi che noi non siamo d’accordo di suicidarci, tanto meno a quel modo. Per intanto, abbiamo scoperto il loro gioco; e abbiamo visto che non è pulito. Perciò, d’ora in poi, staremo bene attenti…

 

di Francesco Lamendola

Fonte: liberaopinione.net

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