Anzitutto, tre premesse più che doverose. Primo, scusate per la lunghezza del pezzo ma l’argomento è di quelli spinosi che non accettano conclusioni affrettate ma necessitano di approfondimento. Secondo. ho volutamente e simbolicamente atteso che passasse la “Giornata della memoria” prima di scrivere questo articolo, onde evitare spiacevoli contrapposizioni temporali. Terzo, questo non è lontanamente un articolo negazionista, né revisionista. Anzi, il contrario. E non perché, in base alla legge varata dalla Camera lo scorso giugno, è prevista la reclusione da 2 a 6 anni, nei casi in cui la propaganda, l’istigazione e l’incitamento all’odio si fondino “in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra come vengono definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale”.
Bensì, perché non prendo nemmeno in considerazione l’argomento negazionista, per quanto mi riguarda non esiste. Ciò che mi interessa è togliere un bel po’ di quella patina di ipocrisia che ammanta la “Giornata della memoria” e la sua retorica, divenuta con gli anni qualcosa di ossessivo e strumentale a un politicamente corretto che vede chiunque sia contrario, ad esempio, alla politica estera israeliana o a quella interna sugli insediamenti a Gaza e in Cisgiordania, tacciato di antisemitismo.
Mi spiace ma quando, come accaduto ieri, il presidente del Senato, Piero Grasso, indica come prioritaria la celebrazione dei processi per i crimini commessi dai nazisti in Italia e, in contemporanea, l’Eurispes certificava che il 48% delle famiglie italiane non arriva alla fine del mese, capite intuitivamente non solo quale sia il grado di scollamento tra politica e Paese reale ma anche il fatto che ogni vigilia del 27 gennaio si tiri fuori dall’armadio della Storia – quasi fossero sciarpe in previsione dell’arrivo dell’inverno – un qualcosa con cui farsi belli e rispondere “presente” all’appello mediatico della società dell’apparenza, delle celebrazioni e dei giorni con dedica da spuntare sul calendario del senso di colpa. Il discorso di oggi del presidente Mattarella, con i suoi nemmeno troppo velati richiami ai risorgenti nazionalismi e all’intolleranza, penso sia la massima espressione della distorsione di cui sto parlando. Anche soltanto pensare che Trump o Putin od Orban siano i nuovi, potenziali Hitler è semplicemente ridicolo.
L’argomento per questo articolo non erano, in prima fase, le celebrazioni di oggi, bensì qualcosa accaduto venerdì scorso e passato sotto silenzio in Italia ma divenuto argomento di furente polemica in Germania. Mi riferisco alle affermazioni di Björn Höcke, esponente di punta dell’ala destra di Alternative für Deutschland (Afd), il quale tre giorni prima si era scagliato contro la politica della memoria in terra tedesca, basata a suo dire su un vero e proprio “culto della colpa”. Più in particolare, Höcke ha puntato il dito contro il Memoriale dell’Olocausto sito nel centro di Berlino, facendo notare che “noi tedeschi siamo l’unico popolo del mondo che ha eretto un monumento della vergogna (Denkmal der Schande) nel cuore della sua capitale”.
Apriti cielo. Höcke parlava al congresso dell’organizzazione giovanile del partito a Dresda e, nemmeno a dirlo, le sue parole hanno garantito materiale alla stampa tedesca, il cui leit motiv quasi generale è stato il seguente: ecco chi sono davvero, neonazisti. Frauke Petri, presidente di AfD, ha immediatamente stigmatizzato l’accaduto e dichiarato che Höcke subirà un provvedimento disciplinare ma, tant’è, la bomba che si cercava per depotenziare un partito già oltre il 15% a livello nazionale è arrivata. Servita su un piatto d’argento e pronta all’uso per il 27 gennaio. Oltretutto, Höcke è anche docente di liceo (benché ora in congedo per la sua attività politica), quindi si è chiesto al ministro dell’istruzione dell’Assia di interdirgli un eventuale ritorno nel suo ginnasio, mentre il ministro Ralph Alexander Lorz (CDU) ha dichiarato prontamente che farà di tutto per impedire a Höcke di proseguire nell’insegnamento. Probabilmente non è esclusa nemmeno la fustigazione in sala mensa.
Vale anche il contrario, però: perché gli Stati Uniti, felicissimi di sovrintendere ai conti della Germania con il proprio passato, negano ad esempio le loro responsabilità criminali in Vietnam? E, anzi, continuano ossessivamente a chiedersi quando i vietnamiti faranno ammenda per quanto fatto loro? Pensate alle decine e decine di film sul Vietnam, quanti hanno avuto il coraggio di dire la verità o, almeno, mostrare anche l’altra faccia della medaglia? Nel suo discorso di conclusione dei negoziati sul lavoro nei campi di concentramento tedeschi, il segretario di Stato Usa, Madeleine Albright, spiegava che era “negli interessi di politica estera degli Stati Uniti fare passi per affrontare le conseguenze dell’era nazista, apprendere le lezioni di questo capitolo buio della storia della Germania e insegnarle al mondo, così da cercare di assicurare che non accada mai più”. Quali interessi? Ne “La questione della colpa tedesca”, Karl Jaspers ha sostenuto che “la messa in stato di accusa della Germania non è più un’incriminazione, se essa diventa un’arma usata per altri scopi, politici, economici”.
Una risposta ha cercato di darla con il suo libro “L’industria dell’Olocausto”, Norman Filkenstein, nel quale tratta dell’asserito sfruttamento da parte degli ebrei statunitensi della memoria dell’Olocausto nazista a fini di vantaggio economico e politico, curando al contempo gli interessi di Israele. Stando a Finkelstein, questa “industria dell’Olocausto” avrebbe corrotto la cultura ebraica, come pure l’autentica memoria dell’Olocausto. E’ antisemita, forse? Difficile dirlo, essendo di religione ebraica, però provate a cercare una copia del suo libro, pubblicato nel 2000: se la trovate, ve la pago io (anche su Amazon è “non disponibile”).
Ecco come l’autore presenta le finalità del suo lavoro: “La seconda tesi centrale è che le élites ebraiche americane sfruttano l’olocausto nazista per vantaggi politici e finanziari… Benché i tedeschi abbiano chiaramente il dovere di confrontarsi con gli orrori del nazismo, essi hanno anche il diritto di opporsi allo sfruttamento di questi crimini. Nel mio libro, scrivo di come diverse organizzazioni, istituzioni e personalità ebraiche americane hanno strumentalizzato l’olocausto nazista per proteggere Israele dalle critiche e, più recentemente, per ricattare l’Europa. La critica principale rivolta al libro non è stata che avevo presentato i fatti in modo inesatto, ma che, nel descrivere questa impresa coordinata, avevo inventato una teoria della complotto”. Non vi pare, forse, che se la CIA ha potuto impunemente ingaggiare e telecomandare per anni il fior fiore della stampa tedesca, di fatto orientando i giudizi dell’opinione pubblica verso una sola versione dei fatti, quella USA, forse c’entri anche tutto questo? E l’atteggiamento da cameriera tenuto da Angela Merkel verso Barack Obama non pagherà forse un po’ lo scotto a quanto denunciato da Karl Jaspers prima e Filkenstein poi?
Ma non si può dire, l’accusa di antisemitismo è dietro l’angolo. Con il rischio della galera. Ecco un altro passo del lavoro di Filkenstein: “Nell’ottobre 2001 il Tribunale per la determinazione dei ricorsi (Claim Resolution Tribunal, CRT) che decide sui ricorsi sui conti svizzeri inattivi dalla fine della seconda guerra mondiale, ha pubblicato le sue conclusioni a proposito di una lista iniziale di 5.570 conti esteri. Il Tribunale ha scoperto che il valore dei conti appartenenti a vittime dell’Olocausto ammontava in tutto a 10 milioni di dollari: è assai improbabile che questa cifra possa avvicinarsi agli 1,25 miliardi di dollari strappati alle banche svizzere con l’accordo definitivo (e meno che mai ai 7-20 miliardi di dollari richiesti inizialmente) anche dopo che verranno definiti i ricorsi sui rimanenti 21.000 conti inattivi e chiusi dell’epoca dell’Olocausto”.
E ancora: “Riferendo le conclusioni del CRT, il Times di Londra titolava: “Il denaro svizzero dell’Olocausto si rivela un mito”. La consistenza delle prove conferma l’accusa di Raul Hilberg, secondo cui il Congresso Mondiale Ebraico si inventò “cifre fenomenali” e poi obbligò le banche svizzere al pagamento “con il ricatto”. Oggi che solo una minima parte degli 1,25 miliardi di dollari dell’accordo svizzero è stata pagata alle vittime dell’Olocausto o ai loro eredi, è iniziata, come era prevedibile, la battaglia fra i ricattatori su chi riesce ad arraffare il bottino dell’Olocausto. Presa fra due fuochi c’è, in modo che abbastanza interessante, la vittima dei ricattatori. Sostenendo che Israele è il legittimo proprietario, e dichiarando che non si fidava del Congresso Mondiale Ebraico, il ministro della Giustizia israeliano ha affermato che l’accordo con le banche svizzere deve essere rinegoziato”. E’ antisemitismo questo oppure raccontare una storia? Anzi, la storia di una truffa, perpetrata sulla pelle di chi è morto nei campi di sterminio. Bene fa Mentana a denunciare che chi espropriò i beni degli ebrei deportati non pagò mai ma altrettanto andrebbe fatto notare che qualcun altro ha goduto di denaro non dovuto, brandendo l’Olocausto come conto da saldare con la Storia. Abbastanza vergognoso, direi.
Per questo, in un mondo dove Charlie Hebdo può ridicolizzare, schernire e fare oggetto di satira corrosiva qualsiasi argomento, tra il plauso degli intellettuali liberali, trovo assurdo che esista ancora un tabù totale attorno all’Olocausto ma, purtroppo, è così. In compenso, nulla da ridire su questo:
ovvero il progetto “Yolocaust” dell’’artista israeliano Shahak Shapira, di fatto un’operazione stile Gestapo ne confronti di chi visita proprio il memoriale dell’Olocausto di Berlino e non si comporta come si deve, in base ai criteri personali del nostro censore. A Shapira non va giù che la gente si faccia dei selfie in cui sorride o che faccia yoga o vada in bicicletta nella vasta struttura edificata nell’area originariamente occupata dal palazzo di Goebbels. Quindi ha deciso di prendere questi scatti, reali, da Instagram, Tinder, Grindr e Facebook e cambiare sfondo, ambientandoli in scenari dell’Olocausto e ripostandoli sugli account. Chi vuole che questi selfie siano rimossi, deve scrivergli, spuntando la dicitura “Sono in una di queste foto e mi pento di averla caricata su internet. Puoi rimuoverla?”. Ora, chi cazzo è Shahak Shapira per entrare nei profili altrui, prendere le foto, modificarle e poi postarle? Una bella denuncia alla polizia postale no, eh? E poi, se voglio la rimozione devo chiederti scusa e fare il mea culpa, perché ho fatto un selfie in cui non ero tutto contrito e lacrimevole come piace a te? Un filino totalitario come atteggiamento, immagino che Hannah Arendt non approverebbe. Ma provate a dire qualcosa al riguardo, l’accusa di essere il miglior amico di Himmler è dietro l’angolo.
Ma si sa, nel mondo in cui Roberto Benigni ha preso l’Oscar per aver tramutato l’Olocausto in una favoletta è normale che il primo Shahak Shapira che passa diventi immediatamente Simon Wiesenthal e gli altri tutti dei neo-nazisti, magari perché osano dire che Netanyahu sta un po’ esagerando con gli insediamenti in Cisgiordania. Per inciso, ecco cosa Simone Veil disse de “La vita è bella”, poco dopo l’attribuzione della statuetta negli States: “E’ un film assolutamente scadente. La storia non ha alcun senso. Non mi è piaciuto nemmeno Schindler’s List. Queste sono favole cinematografiche”. Tanto più che, in ossequio a quanto denunciato da Filkenstein nel suo libro, Benigni fa liberare il capo di concentramento da un carro armato con la bandiera americana in bella vista, quasi dimenticandosi volutamente che Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa: questa tabella
ci mostra alla perfezione come si possa piegare la Storia ai propri desiderata, attraverso una propaganda martellante. Guardate la quantità di cittadini francesi che, a partire dal Dopoguerra e fino al 2015, riteneva gli americani i veri vincitori nella lotta contro Hitler e non i russi, mentre quest’altra tabella
contestualizza il sacrificio sovietico nella Seconda Guerra Mondiale. Ma se pensate alla fine del nazismo, a cosa pensate? Agli Stati Uniti, gli “alleati”, i liberatori. Già, perché alla faccia di Yalta, gli Usa avevano già pronto il nemico numero due, l’URSS e l’avamposto perfetto per combatterlo attraverso la Guerra Fredda, ovvero l’Europa post-bellica – Italia in testa – che avevano liberato dal fantasma del Reich. Tutto torna, non vi pare? Ecco cosa disse il regista Mario Monicelli, parlando de “La vita è bella”: “Senza Stalin, eravamo tutti nazisti, questa è la realtà. Non come quella mascalzonata di Benigni, quando alla fine fa entrare un carro armato con la bandiera americana. Quel campo, quel pezzo d’Europa la liberarono i russi, ma… l’Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà”. Problemino: quanta gente ha ammazzato Stalin, non in nome della razza ma della classe o della dissidenza? I gulag erano dei resort di vacanza rispetto ai lager? La Storia è testarda e non si fa manipolare dalle ricorrenze mediatiche.
Perché il rischio, a vendere solo versioni preconfezionate della Storia, è che sui social network oggi fioriscano richieste di un giorno della memoria ad hoc anche per donne, vecchi e bambini palestinesi: atteggiamento semplicistico e bambinesco, certo. Ma finché veri e propri crimini come l’operazione “Piombo fuso”, nella quale si usò fosforo bianco sui civili con la scusa di colpire i corridoi sotterranei di Hamas, verranno descritti e unanimemente riconosciuti come “il diritto di Israele di difendersi”, altrimenti scatta l’accusa di antisemitismo latente, state sicuri che certi sentimenti non spariranno (la sinistra però è brava a dissimulare, il loro è sempre e solo anti-sionismo militante). Anzi, troveranno linfa e acqua per proliferare, anche se venissero istituite 50 “Giornate della memoria” all’anno e la RAI mandasse non-stop solo film sull’Olocausto per tutto il 2017. Lo so, è duro toccare certi nervi scoperti ma occorre avere il coraggio di grattare via l’ipocrisia dal 27 gennaio, altrimenti si ridurrà tutto all’ennesimo vuoto rituale di un mondo che vive su scadenze del ricordo, della colpa e del rimpianto. Oltretutto, prestabilite da altri e dalla loro narrativa. Spesso interessata. Rifletteteci, perché le prime vittime della strumentalizzazione della memoria sono proprio i morti che si dice di voler ricordare.
di Mauro Bottarelli
Fonte: rischiocalcolato.it
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