Prima le abbreviazioni criptiche. Adesso una miriade di simboli, disegni, ritratti, faccine. E la nuova frontiera: i discorsi-puzzle dei “messaggini audio”. Analisi di un parlare che ormai dice ma non conversa.
DILAGARE DI CHIACCHIERE. E diluvio fu, per le questioni più inutili: le tariffe feroci non scoraggiavano nessuno dal cavar fuori il pistolone e dare appuntamento al mezzogiorno di cuoco: butta la pasta, sto arrivando. Ogni ora, in ogni dove, raffiche di banalità, meglio se imposte all’universo mondo. Lentamente le suddette tariffe s’abbassavano, per effetto della concorrenza, e i mattoni evaporavano per restringersi fino alle dimensioni d’una suppostina: ma escogitavano nuovi apparecchi più potenti, forniti di schermo, mentre le chiacchiere dilagavano come non mai, deflagravano.
NUOVI LEMMI ANNI 2000. Nel contempo si sviluppava l’alluvione parallela delle email e soprattutto dei “messaggini”, piccoli insulsi periodi che rivoluzionavano la tendenza a esprimersi per frasi insostenibili: gli italiani, oppressi da modi di dire burocratici, da ministeriali barocchismi, scoprivano, per risparmiar caratteri, inedite essenzialità che si rivelavano incomprensibili e/o stupide, sideralmente lontane dalla genialità d’un Guareschi in lager: “Paccami lancorredo”, mandami un pacco con della roba di lana. Sulla soglia del 2000 s’inventavano nuovi lemmi, abbreviazioni criptiche, astrazioni giovaniliste di dubbia efficacia. La scrittura, condannata a morte, si vendicava anche se in una forma malata, involuta.
Le telefonate, pur sempre gagliarde, cominciavano impercettibilmente a diradarsi, era più comodo solfeggiare sulla tastierina, aiutati anche – meraviglia – dalle emoticon, gli stati d’animo affidati alla punteggiatura creativa; poco dopo, le faccine avrebbero risolto la questione, spalancando scenari di graffiti: già reperto archeologico la posta elettronica, che sopravvive quasi solo nella pubblicità non voluta, si prendeva a comunicare per strisce di sorrisi, ghigni, occhioni sgranati: i tempi erano maturi per il lancio di computer tascabili in tutto e per tutto, sempre meno tascabili, che favorivano l’esplosione delle app, dei Messenger, dei Whatsapp, delle chat con cui trasformare un popolo di logorroici in uno di afasici (eccetto in treno: dove sarebbe, allora, il divertimento?). Quanto ai messaggini d’antan, rifluiscono oggi in Twitter, che in definitiva è un social appositamente inventato per farsi la pelle.
FRIGIDI DISEGNI INFANTILI. Interi discorsi silenti, conversazioni fatte di facce: promesse impegnative, impegni di lavoro, solenni vaffanculo, rotture definitive affidate non più a una concitata telefonata ma a frigidi disegnini infantili: mani che fanno il pollice, le corna, omini che mostrano il sedere, ballerine che volteggiano e una miriade di simboli, oggetti, ritratti, hanno perfino pensato alle famiglie multigender, in tutte le combinazioni.
REGREDITI ALLE ELEMENTARI. Per mero esempio, non ci si chiede più che cosa fai a pranzo, si sparano in chat i disegni di un trancio di pizza, un boccale di birra e una tazzina di caffè. Siamo regrediti a una prima elementare perenne. Orwell fosse qui non potrebbe neanche dire – anzi, “emoticare” – un «ve l’avevo detto» perché la faccenda sarebbe troppa anche per lui. Ma, quando tutto sembra irreversibile, ecco la distruzione creativa, la rivoluzione inaspettata, il tornare alle parole pronunciate, alle voci veraci, al riscatto del verbo espresso.
Il messaggio vocale è metodo di non-parlare comodo, veloce, in apparenza spontaneo, in sostanza clamorosamente antidemocratico: io parlo, io dico, affari tuoi
Però non al telefono, in diretta. Sarebbe troppo facile e troppo sensato. No, la nuova frontiera è una sintesi hegeliana delle deviazioni prodotte dalla tecnologia; si chiama “messaggino vocale” e sta in una registrazione di pochi secondi (o minuti, nei casi più gravi) da imporre all’interlocutore – il quale replicherà allo stesso modo, a riplasmare una conversazione dissociata, fatta di stringhe di concetti liofilizzati. Questo metodo di non-parlare sta soppiantando tutto: telefonate, messaggi, cartoni animati. Perché più comodo, veloce, in apparenza spontaneo, in sostanza clamorosamente antidemocratico: io parlo, io dico, affari tuoi.
IN UN DIALOGO AUTISTICO. Se hai qualcosa da obiettare, e ovviamente ce l’hai, tu parli, tu dici, e così via. Nessuna interruzione, nessun gesticolare, de profundis per la fantastica pantomima di Gigi Proietti che, alle prese con un misterioso interlocutore, non riusciva mai a spiccicare parola e si produceva in una sterile sequela di conati, di versi. Dai messaggi vocali viene fuori un dialogo autistico, ma vuoi mettere?
SELVA OSCURA DI BATTUTE. E si usano per tutti i gusti, tutte le occasioni: per avvertire, invocare, convocare, dare appuntamento (e vanno perlopiù perduti, perché una urgenza non la puoi deferire); ma come si fa a raccontarsi e maledirsi in differita, con queste conversazioni-Lego, con questi discorsi-puzzle? E abbiamo già avuto il dispiacere di “vedere” intere interviste assemblate in questo modo: tante domande in vocalmessaggio, tante risposte: solo che il tutto viene frullato e shakerato a piacere, principalmente quello dell’intervistato, che, specie se altolocato, con sovrana noncuranza spara le sue repliche random e l’intervistatore più che sbobinare deve orientarsi in una selva oscura di battute maledettamente surreali, tipo gli esperimenti poetici del cut-up o quelli del Gruppo ’63.
I neurobiologi come Manfred Spitzer, gli studiosi apocalittici come Nicholas Carr, Andrew Keen o Valery Morozov dicono che questo modo di procedere, di approcciarsi, in definitiva di esistere, perché stare al mondo significa stare negli altri, ci scardina la mente, scassina le strutture cerebrali, origina nuove manie, fobie sconosciute, inedite frustrazioni violente; uccidendo il normale ordine psicologico, costringe il pensiero a ricoagularsi da una confusione sempre più strampalata, da cui quel senso di stanchezza perenne, il crollo dell’attenzione, la concentrazione ridotta a quella d’un moscerino e altri malanni irreversibili.
USO COMPULSIVO DI APP. Brutalità benaccette, che si aggiungono alla perdita di facoltà conseguenti all’uso compulsivo di app – una per tutte: il senso dell’orientamento -, alle truffe del multitasking (il cervello non può dare attenzioni parallele, se una ne privilegia, mette in stand by le altre e solo l’automatismo ci salva, ma l’automatismo non è comprensione). Noi rotoliamo, bufali post sociali, verso conseguenze che non sappiamo né vogliamo conoscere: ci penseremo poi, ammesso che ancora si riuscirà a pensare.
DITTATURE DELLA “COMODITÀ”. L’indole dell’uomo è ostinata, la sua conquista regina, la parola torna fuori, si ribella alla dittatura della “comodità”, ma finisce in nuovi imbuti, decisi da altri da noi, automi senz’anima che in una valle al silicone inventano invenzioni devastanti. Neppure la potenza del linguaggio, che da millenni affascina e fa dannare filosofi e mistici, può restare immune all’attacco di dottori Stranamore sempre più alienati. Per comunicare, comunichiamo ancora: ma in modo sempre più frammentato, innaturale, approssimativo, un parlare insieme post e preumano, che dice ma non conversa, non cerca il contraddittorio, non lo regge, lo sfugge. Sempre meno abituati a discutere, a confrontarci, a sopportarci, abbiamo imparato a scannarci e isolarci anche via messaggio vocale. Chissà cosa troveremo nel domani che ci aspetta al varco, ma già così non è vivere insieme. Non lo è più.
di Massimo Del Papa
Fonte: lettera43.it
Link: http://www.lettera43.it/it/articoli/scienza-e-tech
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