A Kiev la copertura mediatica occidentale sull’intera vicenda è stata totalmente unilaterale e viziata da un cinico doppiopesismo.
Il 21 novembre 2013 è considerato il momento in cui inizia l’Euromaidan, ovvero la serie di manifestazioni e di disordini che hanno destabilizzato l’Ucraina e acuito le sue già profonde divisioni. Quel giorno il governo locale aveva annunciato che non intendeva più firmare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, che al contrario sembrava ormai prossimo alla sottoscrizione.
Una variante violenta delle “Rivoluzioni colorate”
Il motivo del mancato accordo era il rifiuto dell’UE di garantire i consistenti aiuti economici che dovevano compensare i costosissimi investimenti infrastrutturali, indispensabili per ammodernare la vetusta quanto imponente industria pesante dell’Ucraina orientale e adeguarla alle norme europee. La firma di quel documento, senza garanzie di investimenti, sarebbe stata disastrosa per il Paese; nonostante questo, a Kiev dilaga immediatamente un movimento di protesta che si concentra subito nella piazza principale del centro cittadino, piazza dell’Indipendenza, chiamata comunemente “Maidan”. Il Movimento, che chiede le dimissioni del Presidente Viktor Janukovič e del suo governo, è composto da giovani, tra i quali molti studenti universitari, ma anche da neonazisti ed estremisti di destra nazionalisti e russofobi. Questi avvenimenti in Ucraina ricalcano, seppur con alcune sostanziali differenze, quanto accaduto negli anni Duemila in Georgia, nella ex Jugoslavia e nella stessa Ucraina (nel 2004) con le cosiddette “Rivoluzioni colorate”, lautamente finanziate e soprattutto guidate, come ampiamente documentato, da forze esterne come il think-tank americano National Endowment for Democracy (NED), il magnate statunitense George Soros e la Albert Einstein Institution di Gene Sharp. Di quest’ultimo si può leggere una interessante intervista nel saggio La congiura lituana della giornalista russa Galina Sapozhnikova, nel quale si sostiene che i tragici eventi di Vilnius del 13 dicembre 1991 furono una sorta di “prova generale” delle future “rivoluzioni colorate”, delle quali Sharp fu il vero ideologo. In Euromaidan sono state dispiegate enormi risorse logistiche e organizzative, che gli insorti hanno avuto a disposizione per paralizzare Kiev e attaccare le forze dell’ordine. Rispetto alla Rivoluzione arancione del 2004, che vide Janukovič concedere, senza spargimento di sangue, la ripetizione delle elezioni, questa volta abbiamo assistito a una variante violenta del modello delle “Rivoluzioni colorate”.
I giovani pacifici sono stati via via messi da parte da formazioni ultranazionaliste violente come Pravy Sektor (“Settore destro”), che hanno attaccato le forze di polizia, i Berkut (in tenuta antisommossa ma privi di armi da fuoco), in un’escalation di violenza culminata nelle tragiche giornate del 12 e del 13 febbraio, durante le quali rimasero uccise decine di persone, tra cui 13 agenti di polizia. Le vittime civili sono servite da pretesto per legittimare il rovesciamento del presidente Janukovyč: non è stato finora possibile stabilire chi fossero i cecchini che dai tetti attorno a Maidan hanno ucciso i manifestanti, ma i media occidentali hanno parlato subito di killer al servizio del Presidente ora deposto. Il 21 febbraio i ministri degli Esteri di Germania, Polonia, Francia e Russia, dopo trattative drammatiche con il presidente Janukovyč, lo hanno costretto a sottoscrivere un accordo umiliante che contemplava nuove elezioni presidenziali anticipate, la liberazione dei manifestanti arrestati e il ritiro delle forze dell’ordine. A causa di quest’ultimo provvedimento, è stato facile per gli squadristi di estrema destra prendere d’assalto i palazzi del potere, il parlamento e il palazzo presidenziale, costringendo Janukovič alla fuga. L’Unione Europea, con un clamoroso voltafaccia, ha riconosciuto il governo illegittimo del Presidente Turčinov e del premier Jacenjuk, definendo “rivoluzione” quello che, nei fatti, è stato un palese colpo di Stato.
Il detonatore della rivolta antigolpista della Crimea e delle regioni sudorientali dell’Ucraina è stato un provvedimento liberticida, con cui il nuovo governo nazionalista vietava in tutto il Paese l’utilizzo della lingua russa e degli idiomi di tutte le minoranze etniche.
Questa legge è stata ritirata all’ultimo momento – su intervento dell’UE e degli Stati Uniti – ma ciò non è bastato a placare gli animi. In quelle terre infatti è forte il sentimento antifascista: durante il Secondo conflitto mondiale, in Ucraina orientale i nazisti hanno compiuto stragi inaudite contro la popolazione civile, mentre in quella occidentale una parte cospicua della popolazione si è alleata con i tedeschi, collaborando allo sterminio dei partigiani, dei polacchi e degli ebrei. Molti si sono arruolati nelle SS, in particolare nella divisione “Galizia”, composta esclusivamente da ucraini: queste formazioni hanno operato nei principali campi di sterminio e anche in altri paesi europei. Nel libro di memorie La Shoah in me di Simcha Rotem, difensore del ghetto di Varsavia, sono ricordati numerosi episodi riguardanti le SS ucraine che presero parte attiva allo sterminio degli ebrei del ghetto.
Il colpo di Stato di Maidan, con l’ascesa al potere di formazioni di estrema destra che riabilitano i collaborazionisti dei nazisti, ha indotto i cittadini di etnia russa a invocare la protezione della Federazione Russa.
L’Ucraina occidentale non ha mai fatto i conti con il proprio oscuro passato, ed è diventata la roccaforte dei partiti di estrema destra che hanno sparso il terrore in tutto il Paese dando la caccia a cittadini della minoranza russa e dei dissidenti in generale. Sono questi estremisti che il 2 maggio 2014, a Odessa, hanno perpetrato un vero e proprio pogrom, pianificato in anticipo. Quel giorno 1.500 squadristi provenienti da fuori città, tra neonazisti e ultrà di calcio, hanno invaso il centro, attaccando un presidio antifascista e costringendo la folla di partecipanti alla fuga; almeno quaranta persone sono morte in questo orrendo massacro, che è stato nascosto dai media occidentali e presentato alla nostra opinione pubblica semplicemente come un tragico episodio di guerra civile, come se non ci fosse differenza tra vittime e carnefici. Ancora oggi, a distanza di più di due anni, le indagini sono insabbiate e i colpevoli in libertà.
Due pesi e due misure
La copertura mediatica occidentale sull’intera vicenda è stata totalmente unilaterale e viziata da un cinico doppiopesismo. I corrispondenti italiani e occidentali presenti a Maidan – salvo rare eccezioni – non hanno fatto altro che riportare in modo totalmente acritico i comunicati preparati dall’ufficio stampa del “Movimento”: ad esempio, le occupazioni di edifici pubblici a Kiev da parte dei neonazisti di Pravy Sektor sono state descritte come inevitabili e giustificati risvolti violenti di una Rivoluzione arancione 2.0, mentre la rivolta antifascista dei cittadini di etnia russa di molte città sudorientali, dove pure sono stati occupati edifici pubblici, è stata screditata e accusata di non essere genuina e spontanea, ma eterodiretta da Mosca.
Il primo obiettivo degli strali della stampa e dei rappresentanti politici è l’imperialismo russo e la presunta volontà di Putin di rifondare l’Unione Sovietica, invadendo e annettendo parte dell’Ucraina. Tuttavia la Federazione Russa, a differenza di altre potenze come gli Stati Uniti, che contano oltre 800 basi nel mondo, ha due sole basi (in Siria), al di fuori di quelli che erano i confini dell’Urss, ed è presente in sei repubbliche ex sovietiche L’ostilità nei confronti di Mosca ha radici antiche: in Occidente è diffusa infatti una vera e propria “paura della Russia”, carica di pregiudizi e diffidenza, che persiste da quasi mille anni ed è ben descritta dal giornalista e storico svizzero Guy Mettan nel libro Russofobia, che affronta per la prima volta questo importante fenomeno finora incredibilmente ignorato dall’editoria mondiale.
Sono molti gli esempi di distorsioni operate dalla stampa: quando nel 2014, per presunti motivi di sicurezza, le autorità di Kiev hanno vietato il Gay Pride che solo l’anno prima si era svolto regolarmente sotto il governo del “filorusso” Janukovyč, la stampa non ne ha fatto menzione, preferendo attaccare la Russia di Putin per l’analogo divieto del Gay Pride di Mosca; le numerose vittime civili provocate dalle forze armate inviate da Kiev nelle regioni orientali, così come le centinaia di migliaia di profughi fuggiti in Russia, sono state pressoché ignorate dai media occidentali; la colpa dell’abbattimento di un volo di linea malese, avvenuto nello spazio aereo ucraino, è stata attribuita senza alcuna prova alla Russia.
Negli ultimi due anni e mezzo la situazione è precipitata, poiché i copiosi aiuti di Stati Uniti e Europa e i prestiti del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale sono stati male impiegati o addirittura rubati. Lo Stato è infatti oggi sull’orlo della bancarotta ed è fiaccato da una profonda crisi sociale ed economica che ha portato al crollo del tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione: l’organizzazione Transparency International pone oggi l’Ucraina al 130° posto dell'”Indice di corruzione”, ultima tra le nazioni europee. Gli oligarchi al potere, a cominciare dal miliardario (in euro) presidente Poroshenko, del quale sono state trovate ingenti somme nel famoso elenco Panama Papers, si sono invece ulteriormente arricchiti.
Segnaliamo anche Julija Timoshenko, nota in Italia per una campagna del 2013 per la sua scarcerazione per presunti gravi motivi di salute, quando stava scontando una pena per corruzione e truffa nel suo Paese e per essere miracolosamente risorta, appena liberata, passando in un solo giorno dal letto in cui giaceva “paralizzata” ai 15 gradi sotto zero del podio festante di Euromaidan. Anche lei, sulla quale ho scritto – inizialmente sotto pseudonimo – un libro inchiesta Julija Timoshenko, la conquista dell’Ucraina, si è ulteriormente arricchita dopo la “rivoluzione colorata”.
Nonostante le recenti pressioni dell’Occidente per far rispettare al governo ucraino gli accordi di Minsk, il governo Poroshenko continua a boicottarli per lasciare aperto il conflitto e incanalare la rabbia della popolazione contro un nemico esterno.
Per un approfondimento segnalo Attacco all’Ucraina, una raccolta di dieci brevi saggi scritti, tra gli altri, da Lucio Caracciolo, Franco Cardini, Carlo Freccero, Giulietto Chiesa. Si tratta di uno strumento indispensabile per affrontare da vari punti di vista (storico, politico, religioso, militare ecc.) la realtà di un Paese complesso, multietnico, multiculturale e fortemente diviso al suo interno.
Nonostante le recenti pressioni dell’Occidente per far rispettare al governo ucraino gli accordi di Minsk, il governo Poroshenko continua a boicottarli per lasciare aperto il conflitto e incanalare la rabbia della popolazione contro un nemico esterno. Finalmente anche Bruxelles, che in modo spietato e scandaloso in questi anni ha negato ogni forma di aiuto alla Grecia, sembra rendersi conto di come sia gli ingenti aiuti a fondo perduto, che i prestiti elargiti per complessivi 11,2 miliardi di euro con inusitata generosità e leggerezza al governo ucraino, siano stati depredati.
È infatti assolutamente impossibile verificare oggi dove siano finite queste somme, pagate da tutti noi contribuenti europei, come afferma il deputato europeo Szabolcs Fazakas, membro della Corte dei Conti. Aleksandr Oničenko, ex deputato molto vicino al presidente Poroshenko e ora perseguitato, sostiene che donazioni e prestiti ricevuti sono stati impiegati in larga parte a scopi militari, soprattutto nel conflitto del Donbass, oppure sono finiti nelle tasche di oligarchi e politici. Il governo ucraino non ha quindi attuato nessuna delle tanto promesse riforme sociali, politiche ed economiche ma ha gravato il Paese di enormi debiti che peseranno sui suoi cittadini per i prossimi anni e decenni.
di Sandro Teti
editore, studioso dei paesi ex URSS.
Fonte: www.beppegrillo.it