Nel 376 Valente aveva permesso ai goti, minacciati dagli unni, di attraversare il confine del Danubio, per dare loro terre incolte. Ogni goto che coltivava la terra o veniva reclutato nell’esercito era un vantaggio per l’impero: o coltivavano terre ormai desolate oppure, sotto le armi, erano da un lato una risorsa preziosa, dall’altro permettevano a dei cittadini romani di pagare le tasse con cui retribuirli. Ormai, da oltre un secolo, seguendo questo meccanismo, e da quando Caracalla quasi due secoli prima aveva dato la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, sempre più barbari erano sotto le armi.
In quel momento l’imperatore Valente si trovava in oriente per preparare una spedizione contro i persiani. Fu allora che gli giunse notizia della richiesta gota di attraversare il confine; Valente aveva dovuto spostare molte truppe a occidente e aveva bisogno di nuove truppe per rinforzare i confini.
La situazione era tuttavia degenerata rapidamente: funzionari romani corrotti avevano permesso che i goti attraversassero il confine in modo disordinato, senza confiscare le armi e prendere in ostaggio i giovani, come ordinato dall’imperatore. Sempre più “immigrati” volevano passare il confine, ormai si era sparsa la voce, ma i romani alla fine avevano chiuso la frontiera, mentre distribuivano razioni ai goti, che controllavano con sempre maggiore preoccupazione.

Rovine dell’antica Marcianopoli, nell’odierna Bulgaria
Il dux Massimino e il comes Lupicino avevano fiutato il guadagno e cominciarono a lucrare sulle razioni, spingendo i goti perfino a vendere come schiavi i figli. Alla fine però capirono che bisognava spostare queste persone; nel frattempo l’imperatore stava ancora a Antiochia. I goti si fidavano ancora dei romani, ma quando furono scortati all’interno lasciarono alle loro spalle un vuoto: tutta la calca degli immigrati che volevano entrare ed erano stati respinti cominciarono ad attraversare il confine clandestinamente, ora che i romani erano impegnati a scortare i goti.
Dopo diverse difficoltà i goti giunsero a Marcianopoli, accampandosi fuori le mura, esausti. Molti pensavano che sarebbero stati accolti in città ma non era il piano dei romani. Vuoi per disorganizzazione, vuoi per incompetenza, vuoi per latrocinio, Lupicino, che era a capo delle operazioni, si chiuse a banchettare con i capi goti in città mentre fuori i goti si ribellavano e sterminavano i soldati romani che li accompagnavano. L’inetto Lupicino allora, credette alle false promesse dei capi (in primis un tale Fritigerno, che aveva assunto il comando, se così si può dire, dei barbari) che solo loro potevano calmare i goti e li lasciò incautamente andare.
Da allora, per quasi due anni, i goti non fecero altro che mettere a ferro e a fuoco la Tracia. Si potevano perfino vedere dalle mura di Costantinopoli; nel frattempo dal Danubio continuavano ad affluire nuovi profughi che ingrossavano le file barbare. Solo allora l’imperatore Valente decise di partire da Antiochia e intervenire, mentre da occidente Graziano, suo nipote, accorreva in ritardo dopo aver dovuto domare gli alemanni. Per non sembrare da meno del neanche ventenne nipote quella mattina Valente aveva deciso di attaccare senza attendere i rinforzi. Insieme le forze romane avrebbero schiacciato senza difficoltà i barbari.
La battaglia
Alla fine Valente, anche per non dover dividere il successo con il collega Graziano, che stava sopraggiungendo in forze, decise di dirigersi da solo contro i goti. In questa fase furono comunque avviate trattative di pace: l’imperatore ricevette infatti una delegazione di preti cristiani ariani, che gli consegnarono una lettera da parte di Fritigerno nella quale si prendeva in considerazione l’ipotesi di intavolare delle trattative sulla consegna ai goti di terre come era stato loro promesso ai tempi dell’attraversamento del Danubio. Ma il capo goto, in realtà, volle rimandare il più possibile l’inizio della battaglia (secondo la versione di Ammiano Marcellino) nella speranza che ritornassero in tempo la cavalleria che si erano allontanata per foraggiare.
Valente perse molto tempo e nel frattempo cominciava anche a tramontare il sole: i soldati erano stati in attesa, tutto il giorno, sotto il sole rovente, senza né bere né mangiare. Con ogni probabilità l’imperatore voleva trattare, forse si era spaventato credendo di aver sottostimato i goti o forse voleva ancora cercare di reclutarli nel proprio esercito o di avere nuove braccia per l’agricoltura. Tuttavia questa attesa, così come perNapoleone a Waterloo, gli fu fatale.
I romani, nervosi (e qui Valente ebbe sicuramente colpe sul controllo dei suoi uomini), attaccarono senza attendere ordini: gli scutarii, un reparto di cavalleria d’élite e gli arcieri a cavallo sull’ala destra, giunti a tiro dei barbari, attaccarono di propria iniziativa; forse furono i goti a reagire ai romani troppo vicini, forse furono i romani ad attaccare per primi, ma il gesto diede comunque inizio alla battaglia. I romani erano disposti con la fanteria al centro e la cavalleria sulle ali, mentre la fanteria gota era schierata poco distante dal cerchio di carri.
Fu allora che sul fianco sinistro romano, che avanzava con difficoltà per via del terreno, fu attaccato dai cavalieri goti e alani di ritorno dal foraggiamento. I romani assorbirono l’urto e respinsero i goti: fu necessario l’intervento dei catafratti, i cavalieri corazzati. Avanzarono, mentre la fanteria combatteva, così tanto che il fianco sinistro romano si spinse fino ai carri goti, senza però essere seguiti da nessuno. Se la battaglia non fosse nata per caos e l’attacco fosse stato adeguatamente sostenuto da Valente, i romani avrebbero sopraffatto i goti senza difficoltà. Invece l’ala sinistra si scollegò dal centro e rimase isolata, lasciando il fianco sinistro delle legioni scoperto. Fu allora che la cavalleria gota e alana, messa in fuga, ritorno e piombò sul fianco sinistro romano, annientandolo.
I legionari romani, schierati in ordine compatto e con scarso margine di manovra, non potevano reggere prolungatamente l’urto e alla fine la loro formazione, dopo una strenua resistenza iniziale, si sfaldò e si dette alla fuga. Valente rimase fino al calar delle tenebre a comandare le ultime legioni rimaste compatte (quella dei lanciarii e quella dei mattiarii); ma ad un certo momento lo stesso imperatore rimase ucciso (o fuggì) e i resti delle forze romane andarono allo sbando.
Non si è mai saputo di preciso in che modo l’imperatore morì: forse fu colpito da una freccia o forse, come si raccontò dopo la battaglia, bruciò vivo nell’incendio di una fattoria nella quale, ferito, si era riparato nottetempo e a cui i goti avevano dato fuoco; con lui caddero anche due comites (Sebastiano e Traiano) e un numero imprecisato di romani (c’è discordanza sul numero esatto dei romani, tra i 10 e i 40.000 uomini). In seguito alla vittoria i barbari dilagarono nei territori intorno alla città compiendo ogni genere di razzie e massacrando le popolazioni romane. Il magister equitum Vittore si salvò e portò la notizia della sconfitta a Graziano, che si sarebbe potuto congiungere qualche giorno dopo allo zio e annientare i goti.
Dopo Adrianopoli
Negli anni seguenti Teodosio, che era succeduto a Valente, cercò di sconfiggere i goti, ma l’esiguità delle forze di cui disponeva e la mancata fedeltà delle nuove reclute barbare secondo la visione dell’imperatore (in alcuni casi i reparti erano in maggioranza barbarica e l’imperatore temeva per insurrezioni) portò Teodosio a firmare la pace, il 3 ottobre del 382, tra romani e goti. In cambio i goti avrebbero dovuto fornire contingenti all’esercito romano, con condizioni di pace favorevolissime, cosa mai avvenuta in precedenza.

Le mura di Tessalonica
Nel 390 Teodosio diede ordine di massacrare i goti a Tessalonica, dopo che la popolazione si era ribellata ai goti e aveva impiccato il magister militum Buterico, colpevole di aver arrestato un famoso auriga e di non aver concesso i giochi annuali. Il vescovo di Milano Ambrogio spinse l’imperatore a chiedere pubblicamente perdono; Teodosio accettò: fu il primo caso di supremazia del potere ecclesiastico su quello civile, e l’inizio di un lungo contrasto millenario tra potere spirituale e temporale.
In seguito a quest’atto di sottomissione vennero promulgati i decreti teodosiani, che intercedevano l’accesso ai templi pagani, qualsiasi forma di culto, l’immolazione delle vittime di sacrifici equiparata alla lesa maestà, perfino l’adorazione delle statue. Anche le olimpiadi, dopo oltre mille anni, cessarono di esistere. Alla fine, nel 395, i foederati goti di Alarico, già magister militum per Illyricum e re dei visigoti si ribellarono, e nel 410 saccheggiarono Roma, dopo 800 anni dal sacco del gallo Brenno.
Fonte: http://storieromane.altervista.org/la-battaglia-di-adrianopoli-linizio-della-fine/
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