Pochi sanno che il Mein Kampf, scritto da Adolf Hitler nel 1924, durante il periodo trascorso nel carcere di Landsberg am Lech, è composto da due parti ben distinte. La prima è stata pubblicata nel 1925 col titolo di Mein Leben (La mia vita), mentre la seconda è stata pubblicata nel 1927 col titolo di Mein Kampf (La mia lotta). Successivamente, nel 1933, le due opere vennero unificate in un solo libro, pubblicato in Germania e conosciuto in tutto il mondo col titolo di Mein Kampf.
Si tratta di due opere corpose, circa 400 pagine ciascuna, pubblicate integralmente, e per la prima volta, nel 2016 dalla casa editrice Thule Italia. La maggior parte delle versioni che circolano in lingua italiana col titolo di Mein Kampf sono semplici riassunti commentati, tratti in genere dalla seconda parte dell’opera, basati su testi estrapolati dal contesto che poca attinenza hanno con l’opera di Hitler. Anzi, possiamo dire, avendole confrontate con l’opera originale, che molto spesso lo scopo di queste pubblicazioni è quello di nascondere il pensiero di Hitler, piuttosto che quello di scoprirlo, evidenziarlo e comprenderlo.
Uno dei passaggi meglio nascosti del Mein Kampf, mai citato nei commenti storici, è proprio il motivo per cui Hitler odiava gli ebrei.
Eppure Hitler, nelle prime pagine del Mein Leben, spiega molto chiaramente com’è nata la sua ostilità verso gli ebrei, e come questa si è trasformata piano piano in vero e proprio odio verso di loro.
Nella redazione del presente articolo non abbiamo in alcun modo interpretato il pensiero di Hitler, ma ci siamo limitati a riportare le sue testuali parole, tratte dalla prima parte del Mein Kampf, pubblicata in lingua tedesca nel 1925 col titolo di Mein Leben e in lingua italiana nel 2016 col titolo di Mein Kampf – La mia battaglia (Volume I) edito dalla casa editrice Thule Italia.
Premessa
Per capire appieno la lettura del testo è necessario conoscere alcuni aspetti della vita di Hitler, che cercheremo di riassumere il più possibile.
Adolf Hitler nasce nel 1889 a Braunau am Inn, Austria. Nel 1898, a otto anni, la famiglia si trasferisce a Linz, dove trascorre il resto della sua infanzia e frequenta le scuole primarie e secondarie. Rimane improvvisamente orfano di padre all’età di 13 anni e a soli 18 anni perde anche la madre in seguito ad una lunga e dolorosa malattia. Nel 1908 si trasferisce quindi a Vienna, dove lavora come manovale per guadagnarsi da vivere e inizia ad interessarsi di politica. Hitler voleva in realtà entrare nell’Accademia delle Belle Arti di Vienna e diventare pittore, ma purtroppo aveva talento per l”architettura, ma non per la pittura e non poteva intraprendere la carriera di architetto, non avendo il diploma richiesto per iscriversi all’Accademia.
L’attività di manovale gli permette di entrare in contatto con operai e sindacati, ma la stanchezza per il duro lavoro non gli permette di dedicare tempo allo studio ed alla lettura. Dei sindacati, interamente controllati dal Partito Socialdemocratico, di ispirazione marxista, Hitler scrive:
“Si respingeva ogni cosa: la Nazione, quale un’invenzione delle classi “capitalistiche” – quante volte ho dovuto sentire esclusivamente questa parola! – ; la Patria, quale strumento della borghesia per lo sfruttamento della classe operaia; l’autorità della legge, quale mezzo per la repressione del proletariato; la scuola, quale istituto per l’allevamento degli schiavi, ma anche dei negrieri; la religione, quale mezzo per l’istupidimento del popolo destinato allo sfruttamento; la morale, quale simbolo di una stupida remissività da pecore, eccetera. Non c’era assolutamente nulla che non fosse completamente trascinato nel fango a una tremenda profondità.”
Dopo aver fatto a lungo il manovale, Hitler trova lavoro come disegnatore e acquerellista ed ha quindi più tempo a disposizione, e soprattutto energie, per studiare ed informarsi. Si interessa alla politica e “scopre” lentamente l’importante ruolo degli ebrei nella società austriaca dell’epoca. Nel 1913 Hitler lascia Vienna e si trasferisce a Monaco di Baviera. Le sue idee politiche sono ormai chiare e le sue capacità oratorie perfettamente sviluppate.
Il racconto che segue, tratto dalla prima parte del Mein Kampf, riguarda il periodo viennese, ed è quindi compreso tra il 1908 e il 1913, quando Hitler aveva tra i 18 e i 24 anni.
L’infanzia e l’adolescenza a Linz
Oggi per me è difficile, se non impossibile, dire quando la parola “Ebreo” mi diede adito per la prima volta a particolari pensieri. Nella casa paterna non ricordo di aver mai sentito tale parola, finché mio padre era vivo. Credo che quel vecchio signore avrebbe visto un’arretratezza culturale già nella particolare enfasi di tale denominazione. Nel corso della sua vita egli era giunto a concezioni più o meno cosmopolite, che non soltanto si erano conservate accanto al più aspro sentimento nazionale, ma che mi avevano anche influenzato.
Anche a scuola non trovai alcun motivo che avrebbe potuto portarmi a un mutamento di questa immagine acquisita.
Alla scuola tecnica conobbi anzi un ragazzo ebreo, che veniva trattato da tutti noi con cautela, ma soltanto perché, scaltriti da varie esperienze, non ci fidavamo eccessivamente di lui a causa della sua taciturnità; ma neppure questo fece nascere in me particolari pensieri, come non lo fece negli altri.
Fu solamente tra i quattordici e i quindici anni che m’imbattei spesso nella parola Ebreo, in parte in relazione a discorsi politici. Tuttavia provavo una leggera avversione e non potevo trattenere una sgradevole sensazione, che mi si avvicinava sempre di soppiatto, quando venivano disputate davanti a me grane confessionali.
Ma a quel tempo considerai null’altro che così la questione.
A Linz c’erano pochissimi ebrei. Nel corso dei secoli il loro aspetto si era europeizzato e si era fatto umano; si, li consideravo persino dei Tedeschi. L’assurdità di questa idea mi era ben poco chiara, poiché io vedevo l’unica caratteristica distintiva proprio e soltanto nella loro confessione straniera. Il fatto che essi fossero stati perseguitati, a causa di questo, come io credevo, talvolta faceva sì che la mia antipatia verso commenti malevoli su di loro giungesse quasi fino al ribrezzo.
Non immaginavo proprio ancora nulla dell’esistenza di una sistematica opposizione agli ebrei.
Così giunsi a Vienna.
Gli ebrei di Vienna
Intimidito dalla profusione d’impressioni in campo architettonico, scoraggiato dal peso del mio destino personale, nei primi tempi non avevo occhi per le stratificazioni interne del popolo nella gigantesca città. Sebbene Vienna contasse in quegli anni già quasi duecentomila ebrei tra i suoi due milioni di abitanti, io non li vidi. Il mio occhio e la mia mente, nelle prime settimane, non erano ancora all’altezza dell’assalto di così tanti pensieri. Soltanto quando tornò gradualmente la quiete e quell’agitato quadro incominciò a chiarirsi, mi guardai intorno più accuratamente nel mio nuovo mondo e allora incappai anche nella questione ebraica.
Non voglio affermare che il modo con cui giunsi a fare la loro conoscenza me li fece apparire particolarmente simpatici. Ma vedevo ancora nell’ebreo soltanto la confessione e perciò, sulla base della tolleranza umana, considerai giusto anche in questo caso il rifiuto di una lotta religiosa. Così il tono – e soprattutto quello con cui abbaiava la stampa antisemita di Vienna, – mi parve indegno della tradizione culturale di un grande popolo.
Mi opprimeva il ricordo di alcuni processi del Medioevo, che non volevo assolutamente veder ripetuti.
Dato che i giornali in questione non erano ritenuti generalmente eminenti – da dove questo derivasse, a quel tempo non lo sapevo neppure esattamente -, vedevo in loro più il prodotto di una stizzita invidia, che i risultati in generale di un punto di vista sostanziale, anche se sbagliato.
Fui rafforzato in questa mia opinione dalla forma – che mi sembrava infinitamente più dignitosa – con cui la stampa davvero grande rispondeva a tutti quegli attacchi o come essa, cosa che mi appariva ancor più degna di nota, non li menzionasse nemmeno, ma li mettesse semplicemente a tacere.
I primi dubbi: gli ebrei non sono tedeschi
… anche le mie idee nei confronti dell’antisemitismo mutarono lentamente nel corso del tempo, allora questo fu probabilmente il mio cambiamento più difficile.
Esso mi è costato la maggior parte dei conflitti interiori, e soltanto dopo mesi di lotta tra ragione e sentimento la vittoria iniziò a schierarsi dalla parte della ragione. Due anni dopo, il sentimento seguì la ragione per diventare da allora in poi il suo più fedele custode e ammonitore.
Al tempo di quest’amara lotta tra la mia educazione spirituale e la fredda ragione, la lezione pratica e visiva della strada viennese mi diede un aiuto inestimabile. Era giunto il momento in cui non mi aggiravo più, come nei primi giorni, come un cieco nell’enorme città, ma guardavo – con gli occhi ben aperti – non soltanto gli edifici, ma anche le persone.
Così una volta, mentre mi aggiravo per il centro della città, m’imbattei improvvisamente in una figura dal lungo caffettano e con i riccioli neri.
Anche questo è un ebreo?, fu il mio primo pensiero.
A Linz, non se ne vedevano di certo in tal maniera. Osservai quell’uomo furtivamente e con cautela, ma tanto più a lungo fissavo quel viso straniero e provavo a indagarlo – tratto dopo tratto -, quanto più la prima domanda si mutava nel mio cervello in un’altra:
Anche questo è un Tedesco?
Come sempre in simili casi, iniziai a cercare di risolvere i dubbi attraverso i libri. Acquistai a quel tempo, per pochi centesimi, i primi opuscoli antisemiti della mia vita. Purtroppo tutti partivano dal presupposto che, in linea di massima, il lettore conoscesse già, perlomeno fino a un certo punto – la questione ebraica, o addirittura la comprendesse. Infine, il loro tono era perlopiù tale che mi tornarono dei dubbi, a causa di argomentazioni in gran parte tanto superficiali ed estremamente non-scientifiche a sostegno della tesi di fondo.
Allora ritornavo nuovamente al punto di partenza per settimane, se non addirittura per mesi.
La cosa mi sembrava essere talmente oltraggiosa, l’accusa talmente eccessiva che io, tormentato dal timore di commettere un’ingiustizia, diventavo di nuovo ansioso e insicuro.
Ovviamente, non potevo più dubitare che qui non si trattasse di Tedeschi di una particolare confessione, bensì di un popolo a sé stante; giacché, dal momento in cui avevo iniziato a occuparmi di tale questione, cominciai per la prima volta a concentrare la mia attenzione sugli ebrei, e Vienna mi apparve sotto una luce diversa rispetto a ciò che accadeva in precedenza. Ovunque io andassi, ora vedevo ebrei, e tanti più ne vedevo quanto più nettamente essi si distinguevano visibilmente dalle altre persone.
Soprattutto il centro della città e i quartieri a nord del canale danubiano pullulavano di un popolo che già esteriormente non aveva alcuna somiglianza con quello tedesco.
Le macchie morali del popolo eletto
D’altra parte la pulizia – morale e non solo – di questo popolo era una storia a sé. Che qui non si trattava di amanti dell’acqua, lo si poteva vedere chiaramente già dal loro aspetto esteriore – e purtroppo molto spesso anche a occhi chiusi. Talvolta, dopo aver sentito l’odore di questi portatori di caffettano, mi sentivo male. A ciò si aggiungevano poi gli abiti sudici e l’aspetto poco eroico.
Già tutto ciò non poteva risultare molto attraente; ma si veniva del tutto disgustati quando, improvvisamente, oltre alla sporcizia fisica si scoprivano le macchie morali del popolo eletto.
Nessun’altra cosa mi aveva dato, in breve tempo, più da pensare quanto il veder incrementare lentamente il tipo di attività lavorativa degli ebrei in determinati settori.
C’era mai forse un sudiciume, una spudoratezza in qualsivoglia forma – in particolare della vita culturale -, in cui non era compartecipe almeno un ebreo?
Non appena s’incideva con attenzione un simile tumore, si trovava, come il verme nel corpo in putrefazione, e spesso completamente accecato dalla luce improvvisa, un piccolo ebreo.
Il controllo della stampa e della cultura
Fu un grande punto a sfavore che il mondo ebraico ricevette ai miei occhi, allorché feci la conoscenza della sua attività nella stampa, nell’arte, nella letteratura e nel teatro. Poiché ora tutte le untuose affermazioni potevano servire a poco o nulla. Per diventare duri per lungo tempo bastava osservare le colonne d’affissione dei manifesti per la promozione degli spettacoli, studiare i nomi – che lì venivano decantati – dei creatori spirituali di quegli orrendi lavori pasticciati e mal fatti per il cinematografo e per il teatro. Quella era pestilenza, una pestilenza spirituale – peggiore della morte nera del passato – con cui si infettava il popolo.
E in che gran quantità questo veleno veniva fabbricato e diffuso!
Naturalmente, tanto più basso è il livello spirituale e morale di un simile fabbricante d’arte, quanto più è illimitata la sua prolificità – fino a far sì che un soggetto del genere spruzzi, al pari di una centrifuga, la propria immondizia in faccia al resto dell’umanità. Inoltre, si pensi anche all’illimitatezza del loro numero; si pensi che, per un solo Goethe, la natura partorisce molto più facilmente decine di migliaia di simili scribacchini in pelliccia, per ora – al pari di portatori di bacilli – avvelenano l’anima nella maniera più ignobile.
Era terribile, ma non si poteva ignorare che proprio l’ebreo sembrava il prescelto della natura, e in numero sovrabbondante, per questo scopo disonorevole.
Il loro essere eletti si doveva forse ricercare in tale fatto?
Allora iniziai a esaminare con cura i nomi di tutti i creatori di simili immondi prodotti della vita artistica pubblica. Il risultato fu un esser sempre più arrabbiato per l’atteggiamento che avevo in precedenza nei confronti degli ebrei. E anche se il mio sentimento si fosse opposto per altre mille volte, la ragione doveva invece trarre le sue logiche conseguenze.
Il fatto che i nove decimi di tutta l’immondizia letteraria, delle opere artistiche di cattivo gusto e delle idiozie teatrali fossero da addebitare a un popolo che rappresentata a malapena un centesimo di tutti gli abitanti del paese non si poteva facilmente negare; era proprio così.
Allora iniziai a esaminare da quel punti di vista anche la mia cara “stampa cosmopolita”.
Ma tanto più profondamente calavo la sonda, quanto più si restringeva l’oggetto della mia ammirazione di un tempo. Lo stile era sempre più insopportabile, il contenuto dovetti respingerlo come interiormente superficiale e piatto, l’oggettività dell’esposizione ora mi sembrava essere più una bugia piuttosto che un’onesta verità; gli autori erano, comunque – ebrei.
Migliaia di cose che in precedenza avevo visto a malapena, ora mi colpivano in maniera notevole; e altre, che in passato mi avevano dato da pensare, imparai a comprenderle e a capirle.
In quel momento vidi le idee liberali di questa stampa sotto un’altra luce, allora il suo tono dignitoso nel rispondere agli attacchi – così come il tacere di fronte agli stessi – mi si rivelò proprio come un trucco tanto astuto quanto vile;
le loro critiche teatrali scritte in maniera raggiante riguardavano sempre gli autori giudei, mentre le loro stroncature non colpivano mai qualcuno di diverso dai Tedeschi.
Quel lieve dar stoccate contro Guglielmo II faceva comprendere – nella sua costanza – il suo metodo, come pure quel raccomandare la cultura e la civiltà francese. Il contenuto di poco gusto della novella diventava ora oscenità, e dalla lingua colsi il suono di un popolo straniero; ma il significato di tutto ciò era così palesemente nocivo per il germanesimo, che poteva essere soltanto qualcosa di intenzionale.
Ma chi aveva interesse in questo?
Era soltanto un caso?
Così divenni, lentamente, dubbioso.
L’evoluzione venne comunque accelerata da impressioni che ricevetti da un’altra serie di fatti. Questa era la generale concezione del costume e della morale che si poteva veder apertamente ostentata e messa in pratica da una gran parte del mondo giudaico.
Gli ebrei e il controllo della prostituzione a Vienna
A tal proposito, la strada offriva di nuovo un insegnamento pratico talvolta davvero grave.
I rapporti del mondo ebraico con la prostituzione – e, ancora più, con la tratta delle donne – a Vienna si potevano studiare meglio che in qualsiasi altra città dell’Europa occidentale, a eccezione forse di alcune zone portuali della Francia meridionale. Se si percorrevano di sera le strade e i vicoli di Leopoldstadt, passo dopo passo si diventava, volenti o nolenti, testimoni di pratiche che erano rimaste celate alla maggior parte del popolo tedesco, fino a quando la guerra sul fronte orientale non fornì ai combattenti l’occasione di poterne vedere di simili, o per meglio dire, di doverle vedere.
Allorché in tal maniera, riconobbi per la prima volta nell’ebreo colui che dirigeva, con grande abilità negli affari, e in maniera gelida e al contempo spudorata, questa scandalosa azienda del vizio della grande città, mi corse un leggere brivido lungo la schiena.
Ma poi divampò.
Il controllo della socialdemocrazia
Allora non evitai più la discussione sulla questione ebraica; no, ora la cercavo. Ma, non appena imparai a cercare l’ebreo in tutte le tendenze della vita culturale e artistica e nelle sue varie espressioni, lo incontrai improvvisamente in un luogo in cui meno me lo sarei aspettato.
Nel momento in cui riconobbi l’ebreo quale capo della Socialdemocrazia, iniziò a cadermi dagli occhi l’ultima benda.
Così, una lunghissima lotta spirituale interiore trovò la propria conclusione.
A poco a poco venni a conoscenza del fatto che la stampa socialdemocratica era diretta prevalentemente da ebrei; ma non diedi alcun significato particolare a questa circostanza, dato che anche gli altri giornali si trovavano in quella stessa condizione. Una sola cosa era forse sorprendente: non c’era un solo giornale in cui si trovavano degli ebrei che potesse essere definito davvero nazionale, nel senso che la mia educazione e il mio modo di pensare davano a questa parola.
Così, in quel momento mi sforzai e tentai di leggere questo tipo di prodotti della stampa marxista, ma l’avversione crebbe all’infinito e in egual misura: perciò allora cercai anche di conoscere più da vicino i fabbricanti di queste scelleratezze concentrate.
Erano tutti, a partire dall’editore, puri ebrei.
Presi tutti gli opuscoli socialdemocratici che potevo in qualche maniera procurarmi e ricercai i nomi dei loro autori: ebrei. Mi ricordai i nomi di quasi tutti i capi; anch’essi erano per la maggior parte appartenenti al “popolo eletto”, sia che si trattasse di membri del Reichsrat o di segretari di sindacati, di presidenti delle organizzazioni o di agitatori di strada. Ne usciva sempre la stessa immagine sinistra.
I cognomi Austerlitz, David, Adler, Ellenbogen, eccetera, mi resteranno per sempre nella memoria. Una cosa mi era allora divenuta chiara: il partito, con i più piccoli rappresentanti del quale io avevo disputato per mesi la più appassionata lotta, si trovava – per quanto concerneva i suoi vertici – quasi esclusivamente nelle mani di un popolo straniero; poiché il fatto che l’ebreo non fosse un Tedesco l’avevo ormai già capito, con mia grande soddisfazione interiore.
Ma ora, per la prima volta, conoscevo appieno i seduttori del nostro popolo.
La dialettica ebraica
Un solo anno del mio soggiorno viennese era bastato a fornirmi la convinzione che nessun operaio poteva essere talmente ostinato da non poter essere influenzato da un sapere migliore e da una spiegazione migliore. Lentamente, ero diventato un conoscitore della sua stessa dottrina e la utilizzavo come arma nella mia lotta per la mia intima convinzione.
Quasi sempre la vittoria stava dalla mia parte.
Si doveva salvare la grande massa, anche a costo dei più pesanti sacrifici in tempo e pazienza.
Tuttavia, un ebreo non lo si poteva mai salvare dal suo modo di pensare.
A quel tempo io ero abbastanza ingenuo da voler far capire loro la follia della loro dottrina, parlavo nella mia piccola cerchia fino a seccarmi la lingua e a diventare rauco, e presumevo che sarei riuscito a convincerli degli effetti nocivi della loro follia marxista, tuttavia ottenevo proprio l’esatto contrario. Sembrava anzi che una visione più chiara e precisa dell’effetto devastante delle teorie socialdemocratiche, e della loro realizzazione, servisse soltanto a rafforzare la loro determinazione.
Ma tanto più discutevo con loro, quanto più conoscevo la loro dialettica.
Dapprima essi contavano sulla stupidità del loro avversario, poi, se non trovavano più una via d’uscita, facevano loro stessi i finti tonti. Se tutto ciò non serviva, allora non capivano bene la questione oppure, se in difficoltà, passavano all’istante a un altro campo, su cui affermavano ovvietà la cui accettazione subito la riferivano però ad argomenti essenzialmente diversi, per poi, nuovamente affrontata la questione, svicolare e non sapere nulla di preciso. Così, dovunque si affrontava un simile apostolo, la mano stringeva del viscido muco; esso all’inizio colava, dividendosi, attraverso le dita, per poi riunirsi di nuovo nel momento successivo. Ma se si sconfiggeva uno di questi in maniera davvero schiacciante, tanto che egli, osservato dai presenti, non poteva far altro che annuire, e si credeva di aver fatto perlomeno un passo in avanti, il giorno seguente lo stupore era ancor più grande. Il Giudeo, infatti, non si ricordava più assolutamente nulla del giorno prima, proseguiva a raccontare le sue vecchie scemenze come se non fosse successo pressoché nulla e – indignato di essere interrogato a tal proposito – mostrava stupore, non era in grado di ricordarsi proprio nulla, tranne l’esattezza delle sue asserzioni che già il giorno prima era stata dimostrata.
Quante volte me ne restai lì pietrificato.
Non si sapeva che cosa si dovesse ammirare di più, se la loro prontezza di parola o la loro arte della menzogna.
Iniziai a poco a poco a odiarli.
Tutto ciò aveva però una cosa di buono; poiché, proprio nella misura in cui mi si rivelarono i veri portatori della Socialdemocrazia – o, perlomeno i suoi propagatori -, doveva crescere l’amore per il mio popolo. Chi, infatti, posto di fronte alla diabolica abilità di questi seduttori, poteva ancora maledire la sua infelice vittima? Quanto fu difficile persino per me riuscire a dominare la falsità dialettica di questa razza! Quanto vano era tuttavia un simile successo con uomini che distorcono nella bocca la verità, che rinnegano del tutto la parola appena pronunciata, per poi servirsene per se stessi soltanto pochi minuti dopo!
No. Tanto più conoscevo l’ebreo, quanto più dovevo perdonare l’operaio.
Conclusioni: perché Hitler odiava gli ebrei
Hitler afferma nel Mein Leben di non aver mai avuto pregiudizi verso gli ebrei. Anzi, li considerava tedeschi come tutti gli altri, sebbene di una confessione diversa. Piano piano capisce però che gli ebrei non sono affatto tedeschi, ma sono un popolo a sé stante, con interessi completamente diversi da quelli dei tedeschi. Scopre in seguito che gli ebrei controllano la stampa, il teatro, la cultura e che non sono quel popolo virtuoso che dicono o sostengono di essere. Infatti, sono dentro tutti gli affari sporchi e controllano anche la prostituzione viennese. Scopre inoltre che attraverso il potere dato dal controllo della stampa, gli ebrei impongono al resto della popolazione i propri modelli culturali.
Scopre infine che gli ebrei controllano il partito socialdemocratico e attraverso questo i sindacati.
Hitler capisce quindi che la Nazione Germanica da lui tanto agognata non potrà mai nascere finché ci sarà un potere così forte che vi si opporrà, condizionando il volere delle masse. Nel periodo viennese, per ironia della sorte, Hitler sviluppa le sue abilità oratorie confrontandosi proprio con gli ebrei della socialdemocrazia e dei sindacati. All’inizio è critico verso i lavoratori. Si chiede: “Questi sono ancora degni di appartenere a un grande popolo?” Ma in seguito capisce che con i suoi argomenti e la sua dialettica riesce comunque a portarli dalla sua parte.
Si convince che a un potere così forte come quello degli ebrei, veicolato dalla stampa, dal partito socialdemocratico e dai sindacati, era necessario contrapporre un potere altrettanto forte, ma con idee migliori.
Dove, per idee migliori, Hitler intende messaggi di speranza per i lavoratori, positivi e propositivi, legati alla patria e al senso di appartenenza ad un grande popolo, messaggi che fanno leva sull’orgoglio nazionale e sulla costruzione, tutti insieme, di un futuro migliore e di una Grande Germania. Impara a parlare direttamente al cuore della gente e ad evocare sentimenti ben presenti nel suo popolo, ma sopiti e plagiati.
A soli ventiquattro anni Hitler aveva già maturato le sue idee politiche, aveva sviluppato l’arte oratoria e sapeva che il popolo lo avrebbe seguito, così come aveva fatto in tanti dibattiti che lo avevano visto protagonista. Aveva inoltre individuato i suoi principali nemici ed era ben consapevole di poterli battere. L’analisi della dialettica degli ebrei ed il continuo confronto con loro avevano plasmato la sua personalità.
Nei cinque anni trascorsi a Vienna l’odio per gli ebrei, o meglio per il loro potere corruttivo, si era ormai radicato in Hitler, così come la convinzione che la futura Germania dovesse essere Judenfrei per potersi affermare. La crisi del ventinove e la consapevolezza che la finanza predatoria ebraica era in grado di sottomettere e devastare economicamente qualsiasi paese al mondo altro non fecero che rafforzare la sua convinzione:
non c’era alcuna possibilità di integrare gli ebrei nella futura Nazione Tedesca.
Gli ebrei dovevano avere la propria Nazione.
di Paolo Germani
Fonte: www.altreinfo.org
Nota: nella lingua tedesca viene utilizzato il termine “Jude” per riferirsi agli ebre. In questo posto lo abbiamo tradotto con “Ebreo” anziché “Giudeo”, in quanto il termine “Ebreo” è quello correntemente utilizzato nella lingua italiana. Siamo consapevoli che i due termini non hanno comunque lo stesso identico significato. I titoli e il grassetto sono stati aggiunti per rendere più fruibile il testo ed evidenziare alcuni passaggi ritenuti particolarmente significativi.
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