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Adolf Hitler: perché ho perso la guerra. Paolo Germani

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Il perché Adolf Hitler ha perso la guerra potrebbe avere molte risposte, basate su errori, battaglie perse, decisioni errate, armamenti in campo. Ma se consideriamo che la Germania poteva esprimere una potenza bellica pari a circa un decimo di quella dei suoi nemici, l’esito sembrava comunque scontato. Ci furono però dei momenti in cui la vittoria del Reich sembrava a portata di mano.

Potremmo dire molto su questo argomento, ma lasciamo che sia Hitler stesso a parlare.

A seguire, le considerazioni di Adolf Hitler, espresse il 17 febbraio 1945, quando ormai la guerra sembrava decisa. Tali considerazioni sono tratte dal Testamento Politico di Hitler, noto anche come “Die Borman Vermerke”, dettato da Hitler al suo luogotenente Martin Bormann.

Adolf Hitler, perché ho perso la guerra

Berlino, 17 febbraio 1945

Quando io esprimo un giudizio sugli avvenimenti, obiettivamente e senza passioni, devo riconoscere che la mia incrollabile amicizia per l’Italia e per il Duce può senz’altro essere considerata un errore da parte mia. Risulta infatti del tutto ovvio che la nostra alleanza con l’Italia è stata più utile ai nostri nemici che a noi stessi. L’intervento italiano ci ha apportato vantaggi estremamente modesti in confronto alle numerose difficoltà da esso determinate.

Se, nonostante tutti i nostri sforzi, non dovessimo riuscire a vincere questa guerra, l’alleanza con l’Italia avrà contribuito alla nostra sconfitta!

Il più grande servigio che l’Italia avrebbe potuto renderci sarebbe consistito nel rimanere estranea a questo conflitto.

Per assicurarci la sua astensione nessun sacrificio, nessun dono da parte nostra sarebbero stati troppo grandi. Se essa avesse mantenuto costantemente il suo status di paese neutrale, l’avremmo colmata dei nostri favori. In caso di vittoria avremmo condiviso con essa tutti i frutti e tutta la gloria. Con tutto il cuore avremmo collaborato alla creazione del mito storico della supremazia del popolo italiano, discendente legittimo degli antichi romani.

Invero, qualunque cosa sarebbe stata preferibile all’avere gli italiani come compagni d’armi sul campo di battaglia!

L’intervento dell’Italia nel giugno del 1940, con l’unico scopo di sferrare il calcio dell’asino ad un esercito francese che già si stava disintegrando, ebbe soltanto l’effetto di offuscare una vittoria che gli sconfitti erano in quel momento disposti ad accettare con spirito sportivo. La Francia riconobbe di essere stata lealmente sconfitta dagli eserciti del Reich, ma non fu disposta ad accettare la sconfitta ad opera dell’Asse.

La nostra alleata italiana è stata una causa di imbarazzo per noi, ovunque. Fu questa alleanza, ad esempio, a impedirci di perseguire una politica rivoluzionaria nell’Africa settentrionale. Per la natura stessa delle cose, tale territorio stava divenendo una riserva italiana e come tale il Duce lo rivendicava. Se fossimo stati soli, noi avremmo potuto emancipare i paesi musulmani dominati dalla Francia e ciò avrebbe avuto ripercussioni enormi nel Vicina Oriente, dominato dall’Inghilterra, e in Egitto. Ma essendo le nostre sorti legate a quelle degli italiani, il perseguimento d’una simile politica non era possibile.

Tutto l’Islam fremeva alle notizie delle nostre vittorie. Gli egiziani, gli iracheni e l’intero Vicino Oriente, tutti erano pronti a sollevarsi in rivolta. Si pensi semplicemente a quel che avremmo potuto fare per aiutarli, anche soltanto per incitarli, come sarebbe stato al contempo il nostro dovere e nel nostro interesse!

Ma la presenza degli italiani al nostro fianco ci paralizzò, creò una sensazione di malessere tra i nostri amici dell’Islam, i quali, inevitabilmente, videro in noi dei complici, volenti o nolenti, dei loro aggressori. Poiché gli italiani, in queste parti del mondo, sono ancor più odiati, naturalmente, degli inglesi e dei francesi. Il ricordo delle barbare rappresaglie adottate contro i Senussi é tuttora vivo.

Mussolini e la spada dell'islam. Hitler racconta perché ha perso la guerra

E inoltre, la ridicola pretesa del Duce di essere considerato la Spada dell’Islam desta ora, come prima della guerra, le stesse sghignazzate di scherno. Questo titolo, che si addice a Maometto e a un grande conquistatore come Omar, Mussolini se lo fece conferire da pochi miserabili bruti ch’egli aveva indotto a ciò o con la corruzione o con il terrore.

Ci si presentò una grande opportunità di perseguire una splendida politica nei riguardi dell’Islam. Ma perdemmo il treno, come lo abbiamo perduto in parecchie altre occasioni, grazie alla nostra fedeltà all’alleanza con l’Italia!

In questo teatro di operazioni, dunque, gli italiani ci impedirono di giocare la nostra carta migliore, la emancipazione dei sudditi francesi e l‘incitamento alla rivolta nei paesi oppressi dagli inglesi. Tale politica avrebbe destato l’entusiasmo di tutto l’Islam. È tipico del mondo musulmano, dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Pacifico, che quanto influisce su un paese, per il bene o per il male, influisce su tutti.

Sul piano morale, le conseguenze della nostra politica furono doppiamente disastrose. Da un lato avevamo ferito, senza alcun vantaggio per noi, la fiducia in sé stessi dei francesi. Dall’altro, ciò, di per sé, ci costrinse a mantenere il dominio esercitato dai francesi sul loro impero, per il timore che il contagio potesse diffondersi nell’Africa settentrionale italiana e che anche quest’ultima potesse rivendicare l’indipendenza. E poiché tutti questi territori sono attualmente occupati dagli anglo-americani, io mi sento ancor più giustificato nell’affermare che tale nostra politica fu disastrosa.

Per di più, una così futile politica ha consentito a quegli ipocriti, gli inglesi, di atteggiarsi nientemeno che a liberatori in Siria, in Cirenaica e in Tripolitania!

Dal punto di vista puramente militare, le cose non sono andate molto meglio! L’entrata in guerra dell’Italia offrì subito il destro ai nostri nemici di cogliere le prime vittorie, il che consentì a Churchill di far rivivere il coraggio dei suoi compatrioti e ridiede speranza a tutti gli anglofili in tutto il mondo. Persino nel momento stesso in cui si stavano dimostrando incapaci di mantenere le loro posizioni in Abissinia e in Cirenaica, gli italiani ebbero la faccia tosta di lanciarsi, senza chiedere il nostro parere e senza neppure avvertirci in precedenza delle loro intenzioni, in una inutile campagna in Grecia.

Le vergognose sconfitte da essi subite fecero sì che certi Stati balcanici guardassero a noi con scherno e disprezzo.

In ciò, e non in altre ragioni, vanno individuate le cause dell’irrigidimento della Jugoslavia e del suo voltafaccia nella primavera del 1941.

Questo ci costrinse, contrariamente a tutti i nostri piani, a intervenire nei Balcani, e portò a sua volta a un ritardo catastrofico nell’inizio dell’attacco alla Russia. Fummo costretti a impiegare nei Balcani alcune delle nostre migliori divisioni. E come risultato netto fummo poi costretti a occupare vasti territori nei quali, senza questa stupida ostentazione, la presenza di un qualsiasi reparto delle nostre truppe sarebbe stata del tutto inutile. Gli Stati balcanici sarebbero stati lietissimi, se le circostanze lo avessero consentito, di conservare un atteggiamento di benevola neutralità nei nostri riguardi. In quanto ai nostri paracadutisti, avrei preferito lanciarli su Gibilterra anziché su Corinto o Creta.

Ah, se gli italiani fossero rimasti fuori di questa guerra! Se solo avessero mantenuto il loro stato di non belligeranza!

Tenuto conto della nostra amicizia e degli interessi comuni che ci legano, quale valore inestimabile avrebbe avuto per noi tale atteggiamento! Gli alleati stessi ne sarebbero stati felici poiché, anche se non avevano mai tenuto in gran conto le qualità militari dell’Italia, anch’essi non avevano mai sognato che potesse risultare debole come fu. Si sarebbero ritenuti fortunati nel veder rimanere neutrale un potenziale bellico come quello che attribuivano agli italiani. Ciononostante, non avrebbero potuto permettersi di correre rischi e sarebbero stati costretti a immobilizzare forze considerevoli per affrontare il pericolo di un intervento, che sempre li avrebbe minacciati e che sempre sarebbe stato possibile, se non probabile.

Dal nostro punto di vista ciò significa che si sarebbe avuto un numero considerevole di truppe britanniche immobilizzate e nell’impossibilità di acquisire sia l’esperienza della battaglia, sia l’incitamento tratto dalle vittorie; in breve, si sarebbe trattato di una «falsa guerra», e quanto più a lungo essa fosse continuata, tanto più grande sarebbe stato il vantaggio che noi ne avremmo tratto.

Una guerra che va per le lunghe giova al belligerante nel senso che gli offre innumerevoli occasioni di imparare a combattere. Avevo sperato di poter condurre questa guerra senza concedere al nemico la possibilità di imparare alcunché di nuovo nell’arte della battaglia. In Polonia e in Scandinavia, in Olanda, in Belgio e in Francia, vi riuscii.

Le nostre vittorie furono fulminee e conseguite con un minimo di perdite da entrambe le parti; ciononostante furono così nette e decisive da portare alla disfatta completa del nemico.

Se la guerra fosse rimasta una guerra condotta dalla Germania e non dall’Asse, saremmo stati in grado di attaccare la Russia entro il 15 maggio del 1941. Doppiamente rafforzati dal fatto che le nostre forze avevano riportato soltanto vittorie decisive e inconfutabili, avremmo potuto concludere la campagna prima dell’inizio dell’inverno. Come tutto si è svolto diversamente!

Per gratitudine (poiché non dimenticherò mai l’atteggiamento adottato dal Duce al tempo dell’Anschluss) mi sono sempre astenuto dal criticare o dal giudicare l’Italia. All’opposto, ho sempre fatto quanto stava in me per trattarla come una nostra pari:

sfortunatamente, le leggi della natura. hanno dimostrato che è un errore trattare come uguali coloro che uguali non sono.

Il Duce, personalmente; mi uguaglia. Può darsi anche che sia superiore a me dal punto di vista delle sue ambizioni per quanto concerne il popolo italiano. Ma contano solo i fatti, e non le ambizioni.

Noi tedeschi faremo bene a ricordare che in circostanze come quelle considerate è preferibile per noi condurre da soli la partita. Abbiamo tutto da perdere e nulla da guadagnare legandoci strettamente a elementi più deboli e associandoci a compagni che hanno dato prove troppo frequenti della loro incostanza.

Ho detto più volte che ovunque si trova l’Italia là si troverà la vittoria. Avrei dovuto dire, invece, che ovunque si trova la vittoria là, si può esserne certi, si troverà l’Italia!

Né il mio affetto personale per il Duce, né i miei istintivi sentimenti di amicizia per il popolo italiano sono mutati. Ma io attribuisco a me stesso la colpa di non avere ascoltato la voce della ragione, che mi imponeva di essere spietato pur nella mia amicizia per l’Italia. E avrei potuto far questo con personale vantaggio del Duce stesso e con vantaggio del suo popolo. Mi rendo conto, naturalmente, che un simile atteggiamento da parte mia lo avrebbe offeso e che egli non mi avrebbe mai perdonato. Ma in seguito alla mia indulgenza, sono accadute cose che non sarebbero dovute accadere e che possono senz’altro dimostrarsi fatali.

La vita non perdona la debolezza.

 

di Paolo Germani

Fonte: www.altreinfo.org

NB: il neretto e il colore sono della redazione

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